L'atteggiamento che ha avuto la chiesa cristiana nei confronti dell'usura teoricamente è sempre stato piuttosto netto, sicuramente più netto di quello della cultura ebraica, che poneva il divieto entro i confini del solo giudaismo, tra aderenti alla medesima confessione ebraica, ma lo tollerava tranquillamente nei rapporti con gli stranieri di religione pagana (cfr Dt 28,12; 23,20; Es 22,24; Lv 25,35 ss; Sal 15,5; Pr 28,8; Ez 18,13ss; 22,12 ecc.).
Sappiamo comunque che anche il divieto ebraico restava un lontano ideale, in quanto la Legge in più punti prescriveva dei limiti al creditore nell'esigere pegni (cfr Es 22,25; Am 2,8; Gb 24,3.9; Dt 24,6; 24,10), proprio per non far diventare il povero lo schiavo di un proprio connazionale (cfr Lv 25,39ss; Am 2,6; Ne 5,1-13).
D'altra parte i tassi praticati da Israele non superavano mai quelli delle civiltà ad essa coeve (p.es. nel codice Hammurabi si arriva fino a 50-70%).
Nel periodo ellenistico si arrivò (se si esclude l'Egitto dove rimase al 24%) a un tasso ragionevole dell'8-10%. Nel I secolo d.C. un decreto imperiale lo fissò al 12% nelle province d'Asia.
Nella legislazione giustinianea troviamo i primi “massimali” relativi all'usura su base annua: i senatori non potevano chiedere più del 4%, la maggior parte della popolazione non poteva chiedere più del 6%, gli uomini d’affari non potevano superare l’8%; ma per i prestiti marittimi, ad alto rischio, si poteva giungere sino al 12%.
Sotto l'imperatore Niceforo (802-811) si proibì ai sudditi di riscuotere interessi: solo lo Stato poteva farlo al 16,66%. Anche Basilio I (867-86) proibì l'usura.
E’ evidente che con queste misure si tentava di salvare capra e cavoli: da un lato si scoraggiava la partecipazione dell’aristocrazia al mercato dei capitali, dall’altro si permetteva che venissero richiesti interessi superiori al 6% generalizzato, al fine di incoraggiare le spedizioni a rischio.
Tuttavia nell'XI il tasso ufficiale d'interesse, ch'era andato aumentando progressivamente in base al corso della moneta, arrivò al 5,5% per le persone di alto rango, al 8,33% per la maggior parte della popolazione e al 11,71% per gli uomini d'affari.
Questo significa che, malgrado la condanna religiosa del prestito ad interesse, gli imperatori bizantini, realisti, non tentarono mai seriamente di proibirlo; piuttosto, scelsero di autorizzarlo per meglio controllarlo. Quanto alla chiesa, essa si limitava a condannare gli ecclesiastici che la praticavano.
Ostrogorsky afferma che "sebbene l'usura fosse contraria alla moralità medievale, la proibizione di prestare a usura era molto rara a Bisanzio. Le esigenze dell'economia monetaria, molto sviluppata nell'impero, ignoravano i precetti della morale e il prestito a usura era stato in ogni tempo molto diffuso a Bisanzio"(Storia dell'impero bizantino, Einaudi, p. 171).
Generalmente l'usura si forma quando si è in presenza di un'economia mercantile e di antagonismi sociali. Il fatto che l'usura avesse dei tassi ufficiali regolamentati dallo Stato può far pensare anche al fatto, oltre al mercantilismo e alle classi contrapposte, vi fosse da parte delle istituzioni il tentativo di far valere alcuni valori etico-religiosi volti a impedire che il fenomeno dilagasse.
Non c'è fonte patristica, latina o greca, che non condanni decisamente il fenomeno dell'usura. La prima condanna la troviamo in Clemente Alessandrino (Paedagogus, 1,10 e Stromata 2,19), ma subito dopo gli fanno eco Tertulliano (Adversus Marcionem, 4,17), Cipriano (Testimoniorum libri III ad Quirinum, 3,48), Commodiano (Instructiones 65), Lattanzio (Institutiones divinae, 6,18), Ilario (Tractatus in Ps XIV 15), Ambrogio (De Off. II,3, De Bono Mortis 12,56, De Nab. 4,15, Epistola 19 e De Tobia 42), Girolamo (In Ez. Commentarii 6,18), Agostino (Ennarationes in Ps. XXXVI, sermo 3,6; 38,86 e De baptismo contra Donatistas 4,9), Leone Magno (Ep. IV e sermo XVII). In particolare Girolamo sosteneva che il divieto dell'usura tra "fratelli (ebrei)" (Dt 23,20) era stato "universalizzato" dai profeti e dal Nuovo Testamento, e tuttavia non si diffonderà mai in occidente un'interpretazione universalistica della parola "fratello", poiché anche quando si comincerà a parlarne, nei secoli XII e XIII, lo si farà in maniera del tutto astratta e convenzionale, in riferimento ai cattolici-romani sparsi nel mondo, certamente non in riferimento ai cristiani ortodossi né tanto meno ai musulmani, nei confronti dei quali, proprio in quei secoli, sarà durissima la contrapposizione ideologica, politica e militare.
Per non parlare dei padri greci: Basilio (Homilia II in Ps XIV), Gregorio Nazianzeno (Or. 16,18), Gregorio Nisseno (Ep. ad Letoium, Contra usurarios, Homilia IV in Ecclesiastem), Giovanni Crisostomo (Homilia LVI in Mt, Homilia XVI in Gen, Hom. XIII in 1 Cor, Hom. X in 1 Tess.). E non si devono dimenticare il canone 20 del concilio di Elvira (300), Arles (314), Nicea (325) e Clichy (626).
Tra i padri latini bisogna spendere una parola per Ambrogio, il quale pur dipendendo da Basilio, se ne discosta su due punti fondamentali (nel suo De Tobia, a cura di M. Giacchero, Genova 1965): 1) accetta che l'usuraio faccia il prestito a condizione che il beneficiario possa disporre del denaro come vuole, possa cioè investirlo, restituendo la somma con gli interessi solo una volta ottenuta una rendita dal proprio investimento; 2) nei confronti dello straniero, nemico di guerra, egli permette che si esiga l'interesse sul debito quando lo straniero non può essere facilmente vinto in guerra o quando lo si potrebbe uccidere senza compiere un delitto, secondo il principio "dov'è il diritto di guerra, lì è anche il diritto di usura": col che egli poneva un'adesione pressoché letterale, e certamente poco cristiana, al dettato veterotestamentario. Ambrogio non intenderà mai la parola "fratello" in senso universalistico.
Da Homolaicus