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L'UNITA'
23 agosto 2006
Come fermare gli schiavisti
Gian Carlo Caselli


Per far fronte al dramma infinito dei clandestini (tragedia, quando il mare li inghiotte) il ministro Giuliano Amato ha chiesto alla magistratura italiana «l'impegno interno e internazionale» necessario a «scardinare una buona volta queste organizzazioni criminali». L'obiettivo è sacrosanto. E va nella direzione giusta la creazione di pool specializzati (uno di magistrati e l'altro di poliziotti, carabinieri e finanzieri) decisa ieri dopo il vertice appositamente svoltosi al Viminale. Ma va detto senza ipocrisie che il percorso, tutto in salita, è pieno di ostacoli. Di fatto, quando le indagini riguardano più Stati, poliziotti e magistrati trovano ancora oggi nelle frontiere nazionali barriere spesso invalicabili.

E questo a dispetto dell'internazionalizzazione e globalizzazione che sempre più caratterizza il crimine organizzato.

Il coordinamento fra gli apparati di contrasto è spesso insufficiente. Ciò rallenta - quando non impedisce - interventi efficaci. Anzi, il crimine organizzato sa trarre da questa situazione enormi vantaggi praticando il «jurisdiction hopping» (salto continuo di giurisdizione), vale a dire cercando di coinvolgere nelle sue attività quante più nazioni possibile, così da costringere gli inquirenti a vedersela con un groviglio di complicazioni legali internazionali che spesso è impossibile dipanare.

Quando poi si tratta di quell'infame attività criminale che è il traffico di esseri umani, il quadro ora delineato finisce addirittura per operare come spinta criminogena. Fattori di esclusione da certe aree (fame, povertà, malattie, guerre, persecuzioni...) si intrecciano con fattori di attrazione verso altre (l'illusione di un facile e rapido arricchimento; speranze, spesso vane, di lavoro; la riunificazione di gruppi familiari...). Si crea così una massa enorme di soggetti disposti ad investire tutto quel che hanno - spesso solo il loro corpo - pur di poter migrare.

Vecchie e nuove mafie hanno fiutato l'opportunità di un «business» colossale e hanno assunto la gestione del traffico di esseri umani (sfruttando le rotte già collaudate della droga, del tabacco e delle armi e i canali di corruzione già sperimentati per queste attività illecite: con conseguenti costi «criminali» assai ridotti). Ai guadagni enormi e ai costi ridotti va aggiunta la prospettiva di non rischiare nulla, o quasi, sul piano della repressione penale.

Di solito, infatti, ciascuno Stato indaga (quando indaga) soltanto sul segmento che riguarda il suo territorio, senza «comunicare» con gli altri Stati sui quali si sviluppa la complessiva filiera del traffico. Con la conseguenza che anche quel segmento rischia di non essere decifrato nella sua reale consistenza e che comunque sarà assai difficile, se non impossibile, risalire dalle frange periferiche dell'organizzazione criminale ai quadri intermedi e ai vertici di essa, colpendola nei suoi centri nevralgici. E la quasi certezza di farla franca, a fronte di guadagni immensi e di costi organizzativi ridotti, costituisce - con tutta evidenza - un fattore criminogeno imponente.

Per tutti questi motivi, è assolutamente necessario poter contare su una strategia globale di contrasto e repressione, armonizzata a livello internazionale. Per fronteggiare la sfida di una criminalità sempre più indifferente alle frontiere, l'Europa deve rendersi conto che occorrono il dialogo e l'intesa, tra gli Stati e con le Istituzioni comunitarie, non essendo più sostenibile l'autarchia nelle scelte di politica criminale. È il principio di reciproco affidamento, non quello di egoistica indifferenza e tanto meno di ostilità, a dover prevalere nella ricerca di ogni possibile miglioramento della cooperazione tra poliziotti, giudici e procuratori degli Stati membri, innanzitutto potenziando le risposte operative già esistenti, in particolare Europol ed Eurojust.

In questo modo, anche i rapporti con gli Stati «terzi» potranno essere impostati su nuove basi, meno velleitarie od inconcludenti di quanto fin qui accaduto. Si avvierebbe un «linguaggio comune» internazionale nella lotta al crimine organizzato. Sarebbe una rivoluzione copernicana. Con prospettive concrete, finalmente, di non dover soltanto subire passivamente - di fatto impotenti - manifestazioni criminali di portata ed implicazioni terribili, che sul fenomeno epocale delle migrazioni innestano, sfruttandole, nuove forme di schiavitù.

Nello stesso tempo, deve crescere a tutti i livelli la consapevolezza che la sola risposta repressiva - per quanto necessaria - non basta. In una importante ricerca (intitolata Saccheggio globale; edita da Sperling & Kupfer) S. Calvani e M. Melis spiegano che - «Caino vince dove Abele è più debole, dove ha armi meno efficaci e poca voglia di difendersi. Il crimine organizzato spesso prevale non tanto perché vince battaglie locali contro le forze dell'ordine. Semplicemente occupa spazi abbandonati da Stati schiacciati da un grave degrado politico e amministrativo, dalla mancanza di buona volontà o di risorse, spesso solo dalla mancanza di buon senso. Grazie a questa formula Caino vince: Abele si è arreso prima di combattere».

In altre parole, non basta aggredire le manifestazioni del fenomeno criminale. È necessario aggredirne anche le radici. E si può sperare di contenerlo e poi sconfiggerlo quando non ci si limita a dichiarargli guerra, ma (oltre a perseguirlo e contrastarlo) si cerca anche di sradicare l'ingiustizia che può esserne elemento scatenante. Respingendo la tendenza ad affrontare i problemi posti dalle migrazioni esclusivamente o anche solo prevalentemente in termini di «ordine pubblico» (sia sul piano internazionale sia su quello interno). Accettando invece la sfida in termini di scelte politiche e di diritti che essi inevitabilmente comportano. Sfida che esige anch'essa adeguate forme di cooperazione internazionale. Senza rinvii o accantonamenti in attesa di tempi «migliori».



INES TABUSSO