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12 maggio, ore 15.00 a NAPOLI, via Monte di Dio, 14, "Magistratura e conflitti sociali"
Con Luigi Ferrajoli, Salvatore Senese, Roberto Centaro, Massimo Brutti, Peter Gomez, Erri De Luca,
Gennaro Matino, Raffaello Magi, Antonello Ardituro, Michele del Prete, Livio Pepino.
Introduce Francesco Cascini, moderano Luigi De Magistris e Marco Del Gaudio. Organizza MD





LA REPUBBLICA
11 maggio 2006
Pagine di Napoli

I magistrati e la politica
di Marco del Gaudio, magistrato


Quasi ogni giorno, negli ultimi anni, abbiamo sentito ripetere che i
magistrati non devono fare politica.

Detta così, è un'affermazione che non serve a nulla. Insomma, non c'è niente
da ridire, ma è un po' come lamentarsi che «non ci sono più le mezze
stagioni».

Che vuol dire che i magistrati non debbono fare politica? Forse che non
debbono esprimere idee politiche? O che non debbono mai indagare sui
rappresentanti dell'esecutivo? Oppure che non debbono farsi guidare da
orientamenti politici nell'applicazione della legge? O altro ancora?

Ognuna di queste domande avrebbe una sua risposta, ed ognuna una sua
motivazione.

Se si va al fondo della questione, però, io credo che il refrain che i
giudici non debbono far politica non intenda in realtà porre nessuna di
queste domande. Nella sua versione più insidiosa (e meno dichiarata),
l'affermazione nasconde in realtà la massima aspirazione di qualunque potere
esecutivo: il controllo delle decisioni giudiziarie.

Ma quando l'accusa di «far politica» nasconde il tentativo di ridurre gli
spazi di discrezionalità nell'applicazione della Legge, i magistrati non ci
stanno. E non ci possono stare. Quando fare politica significa, né più né
meno, che fare buon uso della propria discrezionalità, i magistrati non
possono rinunciarvi, perché si tratta esattamente di fare il proprio
mestiere. Il controllo di legalità sull'azione dell' esecutivo, per Alexis
de Tocqueville, è il mestiere principale dei giudici. Sottoporre ad indagini
un uomo politico, non è far politica. Ritenere incostituzionale o
inapplicabile la disciplina sull'immigrazione clandestina o sugli
stupefacenti non è far politica. Interpretare la legge sulle rogatorie
internazionali in modo conforme alle altre leggi e, soprattutto, difforme da
quel che si aspettava il legislatore, non è far politica. E' fare il
magistrato. Eppure, quando i giudici lo hanno fatto, quando hanno adempiuto
al proprio compito, si è gridato allo scandalo.

Vuoi vedere che, allora, quando si chiede ai magistrati di non far politica,
in realtà si chiede loro la cosa esattamente opposta? Non sarà che si chiede
loro di rendersi esecutori supini delle scelte del governo, tradotte in
leggi che cercano di ridurre la discrezionalità e di perseguire un risultato
«politico»?. Ma se queste leggi si prefiggono l'obiettivo, del tutto
legittimo, di perseguire un risultato strategico, di attuare cioè un
indirizzo politico, non può essere pretesa una sponda acritica dall'azione
giudiziaria. Quando si è detto che i magistrati, nell'applicazione della
legge, devono seguire l'orientamento del popolo, spingendosi fino ad imporre
nuove tavole nelle aule giudiziarie per ammonire tutti al rispetto di questo
comandamento, si voleva piuttosto sostenere che i giudici devono seguire la
volontà del potere esecutivo, rappresentante del popolo. Ma questo non
accade in nessuna democrazia.

Nell'ultimo periodo sono state emanate molte Leggi che modificano il
processo penale e cambiano l'entità della pena a seconda del tipo di
imputato. Il processo è divenuto implacabile con i deboli e sempre più
farraginoso, persino difficile da celebrare, per i forti. Si può chiedere ai
giudici di avallare questa tendenza o essi sono tenuti a rispettare la Legge
più importante di tutte, quella dell'art. 3 della Costituzione, per cui
«tutti i cittadini sono eguali davanti alla Legge»?

Non si può affidare gran parte di una politica dell'immigrazione alla
repressione giudiziaria, costruendo leggi ad hoc per i clandestini ed
aspettarsi che i giudici non rilevino vizi, contraddizioni,
incostituzionalità, additando poi i magistrati - quando ciò accade - a
protagonisti politici che remano contro. Non si può, allo stesso modo,
rispondere al bisogno di sicurezza della cittadinanza, scaricando sui
giudici il compito di applicare leggi costituzionalmente dubbie. Non si può
mettere la mordacchia ai magistrati gerarchizzando le procure e minacciando
sanzioni disciplinari per ogni interpretazione della Legge non gradita.

C'è poi un curioso paradosso, che mi sembra il caso di discutere.

Non sarà che - contrariamente al refrain di partenza secondo il quale i
giudici non debbono far Politica - sono i politici che non dovrebbero fare
Giustizia?

Sembra che nella società civile non esista più altro metro di giudizio che
non sia quello giudiziario. Per giudicare un uomo politico, accusato di
gravi reati, si aspetta il responso del processo. Ci si astiene da qualunque
commento su gravi fatti di cronaca, prima della Cassazione. Ma è possibile
che non vi sia più spazio per un giudizio autonomo della società civile,
della critica, della stampa, della Politica, che hanno (e debbono avere) un
metro di valutazione diverso dalle regole del processo? Come dice un
magistrato di grande valore: se io scopro che una persona, invitata a cena a
casa mia, mi ha rubato le posate, certo - per dire che è un ladro - dovrò
aspettare che sia condannato in tre gradi di giudizio. Ma nel frattempo, a
casa mia, non lo invito più.

E invece no. Oggi aspettiamo la Cassazione, assegnando un ruolo politico o
morale ai giudici, affidando loro il compito di avallare o precedere giudizi
etici o civili, che i magistrati hanno imparato ad allontanare da sé sin dal
momento in cui entrano in servizio. Non sarà che è più comodo aspettare il
processo e soprattutto «questo processo», così lungo, così impervio, così
pasticciato? Non sarà che è più comodo assegnare questo compito ai
magistrati?

Non si può governare usando la giurisdizione, almeno quanto i giudici non
debbono, a loro volta, far politica quando esercitano il proprio potere.



INES TABUSSO