00 09/03/2006 22:23
LA REPUBBLICA
9 marzo 2006
"L'ITALIA CASO ANOMALO GIUSTO PRENDERE POSIZIONE"
ENZO BIAGI intervistato da CARLO BRAMBILLA

www.senato.it/notizie/RassUffStampa/060309/a6e01.tif


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LA STAMPA
9 marzo 2006
"PER NOI IN AMERICA E' ROUTINE"
(MASTROLILLI PAOLO) - a pag.4

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CORRIERE DELLA SERA
9 marzo 2006
All'estero
La tradizione dell’«endorsement»
Così si schiera la stampa anglosassone

LONDRA — Aprile 2005, Tony Blair era impegnato nella battaglia elettorale più dura della sua vita, con mezzo partito in rivolta e l’opinione pubblica anche di sinistra delusa e frustrata dall’operazione in Iraq. Fu uno sbuffo di fumo rosso che si innalzò da un comignolo dell’Est di Londra a ridare fiato al primo ministro assediato. Quella «fumata rossa» segnalava la scelta del Sun, il giornale popolare più letto e potente del Regno Unito: ancora una volta avrebbe gettato il proprio peso dalla parte del New Labour. Era stata una trovata quasi goliardica quella del gruppo dirigente del giornale. Pochi giorni prima a Roma la fumata bianca aveva annunciato l’elezione di Ratzinger e il Sun scrisse: «Anche noi siamo alla vigilia di una decisione storica, i nostri editorialisti sono riuniti».
Ma quella fumata rossa non fu uno scherzo: Trevor Kavanagh, il commentatore politico del Sun, il più letto e ascoltato del Paese, scrisse: «Abbiamo deciso di appoggiare il Labour perché ha affrontato bene i temi dell’economia. Ma non è un assegno in bianco».
Schierarsi in occasione delle elezioni, per la stampa anglosassone è assolutamente naturale. «Troviamo anzi strano che non tutti lo facciano», dice Simon Scott Plummer, editorialista del Daily Telegraph. «Non si può restare seduti sulla staccionata e guardare la contesa, i lettori ci premono per avere giudizi e noi li diamo: qualche volta scegliamo tra due mali, indicando quello che per noi è il minore». Il Daily Telegraph decide a ogni elezione, ma il suo codice genetico è conservatore e non cambia: lo chiamano anche «Torygraph».
Al Times, che pure è un quotidiano che non è certo di sinistra, le scelte su candidati e schieramenti sono state più variabili. «Nelle ultime due elezioni abbiamo appoggiato i laburisti», dice il commentatore politico Michael Binyon. E che farà il Times quando Tony Blair passerà le consegne a Gordon Brown e si andrà alle urne? «Non si può dire ancora, certo il nostro sostegno non può essere dato per scontato. Prima di Blair, in realtà, avevamo dato il nostro endorsement a sinistra solo nel 1945, quando vinse il laburista Clement Attlee». E perché il giornale che allora era il più importante del mondo (prima di essere soppiantato come tutta l’Europa dalla stampa della superpotenza americana) abbandonò sir Winston Churchill, l’uomo che aveva resistito al nazismo e aveva guidato il mondo libero alla vittoria nella guerra? «Avevamo capito che il Paese aspettava un cambiamento dopo quegli anni».
Anche dall’altra parte dell’Oceano la tradizione dell’endorsement affonda le radici nei principi dell’informazione. Si narra che il primo a scegliere partito sia stato il New York Tribune diretto da Horace Greeley nel 1862, quando criticò aspramente il presidente Lincoln per come stava affrontando la rivolta secessionista degli Stati del Sud.
Con le ultime due corse alla Casa Bianca anche gli schieramenti sul fronte del Quarto Potere, come l’elettorato d’America, si sono divisi a metà. Tra i pesi massimi, il Wall Street Journal è rimasto tradizionalmente con i repubblicani. E il New York Times ha scelto prima Al Gore e poi John Kerry contro George Bush. Ma il giornale ha anche saputo appoggiare un conservatore come il magnate Michael Bloomberg indicandolo ai suoi lettori come il più qualificato per guidare la città.
E al Washington Post, che i presidenti li crea e li distrugge, come successe a Richard Nixon? Dice Fred Hiatt, capo della pagina degli editoriali: «Quello che noi facciamo, qualche settimana prima del voto è di invitare separatamente i candidati a un colloquio con noi. Partecipa anche l’editore, e ha una voce, ma non ci dice quello che dobbiamo fare. Poi scegliamo, ma chi lavora alle notizie del giornale non è influenzato dal nostro endorsement né è tenuto a seguirlo. Così il lettore che vorrà seguire la campagna solo sulle notizie avrà solo fatti. Nella nostra sezione potrà leggere opinioni». Ma non sempre il Washington Post ha trovato un candidato meritevole: nel 1988 tra Mike Dukakis e George Bush senior non fu indicato nessuno.
Una testata che con il suo milione di copie vendute per la stragrande maggioranza all’estero si lancia in endorsement internazionali è l’Economist. Ma non sempre ha puntato sul cavallo giusto: è stato per Kerry contro George Bush (salvo poi onestamente promuovere la politica mediorientale del presidente); fu per Dole contro Clinton nel ’96. Appoggiò John Major contro Blair. «Ma non ci importa "vincere", noi sosteniamo chi ci sembra più adatto a governare », dicono al settimanale. Il Sun, invece, vanta quasi solo trionfi, anche nei titoli. Come quello che mise fine alle ambizioni dell’ex sindacalista duro del laburismo Neil Kinnock: «L’ultimo che non voterà per lui, spenga la luce, please».
Guido Santevecchi


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L'UNITA'
9 marzo 2006
Gli altri paesi - Così fan tutti
Siegmund Ginzberg

Fanno gli scandalizzati. Ma dov’è lo scandalo? Nell’«americanata»? Nel fatto che un grande giornale italiano ha deciso di fare quel che fanno quasi tutti i giornali americani e buona parte di quelli europei (abitualmente in Francia ed Inghilterra, meno in Germania)? O nel fatto che un giornale per tradizione “moderato” - anzi si potrebbe dire per vocazione storica “filo-governativo”, chiunque sia al governo, sostenga che preferisce che a governare sia qualcun altro? Nel fatto che a differenza delle “dichiarazioni di voto” del passato - ricordate il «votare Dc turandosi il naso» di Indro Montanelli? - stavolta sia netta, senza se, ma, purtroppo? («Non c’è alternativa, purtroppo» è il titolo del ritaglio che abbiamo sotto gli occhi dell’ultima «dichiarazione di voto» dell’Economist per Tony Blair).

Gridano perché temono che gli sposti voti, o per una ragione più profonda, perché una presa di posizione così netta potrebbe avere un effetto simile a quello del bambino che dice «il re è nudo»? Sulla prima cosa li si potrebbe rassicurare. Tutti gli studi che si sono fatti negli ultimi anni in America sull’effetto degli “endorsement”, le dichiarazioni “editoriali” di voto dei giornali Usa alle elezioni presidenziali e nazionali (diverso il discorso per quelle locali), dicono che è minimo. Un effetto «tanto insignificante che si fa fatica a individuarlo», è il parere della stragrande maggioranza dei politologi. La proporzione degli elettori che dicono di essersi fatti influenzare decisivamente dalla presa di posizione editoriale del proprio giornale preferito non supera l’1 per cento. E di questi, buona parte non è nemmeno così sicuro di quale dei candidati sia stato “endorsed” dal giornale che legge abitualmente. Una ricerca del Pew Center sulle presidenziali Usa del 2004 concludeva non solo che «gli endorsement dei giornali hanno avuto meno influenza di quanto avevano nelle elezioni precedenti», ma che hanno finito per «dissuadere almeno altrettanti elettori americani di quanti hanno persuaso». Il mezzo che sposta davvero voti è la televisione. Ma curiosamente le tv non fanno dichiarazioni di voto. Si atteggiano ad imparziali, anche quando non lo sono affatto.

Un giornale in genere non ha bisogno di una dichiarazione ufficiale di voto per esprimere le proprie opinioni. Lo fa già con la sua linea editoriale, che ben raramente è “neutra”. E comunque la cosa che conta è la qualità dell’argomentazione in base alla quale si dichiara la scelta elettorale, mai il solo fatto di fare una scelta. In America tre dei sei giornali di maggiore tiratura - Usa Today, Wall Street Journal,Los Angeles Times - hanno la tradizione di non pronunciarsi editorialmente per l’uno o l’altro dei candidati alla Casa Bianca. Ma nessuno ha dubbi su da che parte stiano: i primi due “votano” quotidianamente a destra. Il New York Times “vota” democratico, e lo dice. Il Washington Post talvolta si è dichiarato equidistante: nel 1988 la “dichiarazione” editoriale concluse che non era in grado di decidere tra Bush padre e Michael Dukakis e che se i due partiti non erano stati in grado di proporre qualcosa di meglio, non gli restava che tirarsi fuori da ogni endorsement. Nel 2004 avevano scelto il perdente John Kerry.

Kerry forse aveva più endorsements sulla carta stampata di George W. Bush. Bush aveva le tv di Murdoch e la pubblicità su tutte le altre. Gli “esperti” americani litigano molto sulla pretesa parzialità dei media stampati a favore dei liberal (anche se c’è chi documenta una pervasiva parzialità, almeno da un edeccnio a questa parte nel senso opposto). Dipende anche dal come si calcola. Le analisi di Editor & Publisher mostrano che dal 1968 in poi il numero dei quotidiani che hanno dichiarato il voto per il candidato repubblicano, di destra, è stato costantemente superiore al numero di quelli che si sono dichiarati per il democratico. Con una sola eccezione non contestata: quando nel 1992 Bill Clinton ebbe più endorsements di Bush padre. Se invece si prende in considerazione la sola stampa “d’elite”, la cosa che salta agli occhi è che nelle ultime sette presidenziali i 20 giornali più importanti che si sono pronunciati lo hanno fatto per il candidato che poi ha vinto. Con due sole eccezioni: Gore nel 2000 (in effetti aveva avuto più voti di Bush, anche se aveva perso) e, forse, Kerry nel 2004. Ma non significa affatto che sia effetto del loro endorsement. Qualche commentatore ha un’ipotesi diversa: che le direzioni dei giornali americani abbiano “scommesso sul vincitore”, più che pronunciarsi in base a preferenze ideologiche. Insomma che abbiano accompagnato, piuttosto che incoraggiato, un orientamento che percepivano già come dominante nell'orientamento dei propri lettori. Che sia questa la vera, inconfessabile, ragione del panico e della concitazione sulla dichiarazione di voto del Corriere?



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LA STAMPA
9 marzo 2006
POLITICA
L’EDITORIALE. IL DIRETTORE DEL CORRIERE DELLA SERA PRENDE PUBBLICA POSIZIONE SULLE ELEZIONI DEL 9 APRILE
Mieli: votate Unione. Il Polo insorge
Il centrodestra: non è più un giornale indipendente. Prodi soddisfatto: una bella giornata
Amedeo La Mattina

ROMA. Con un editoriale sul Corriere della Sera, Paolo Mieli si schiera con l’Unione. E Berlusconi non si dice sorpreso perché «i lettori del Corriere già sapevano di leggere qualcosa vicino a L’Unità». Per il premier è dimostrazione della sua tesi, del fatto che i cosiddetti poteri forti sono coalizzati contro di lui. E che la sinistra, «dopo anni di gramsciana memoria, è entrata anche nei giornali, ha conquistato un altro pezzo di società».

Poi la bordata contro il presidente della Confindustria Montezemolo che Berlusconi considera uno dei principali suggeritore di Mieli: «Io credo che l’ingratitudine sia un fenomeno abbastanza diffuso nel nostro Paese». Un j’accuse violentissimo che arriva in serata dopo una lunghissima serie di commenti al vetriolo da parte della maggioranza. Tutti a dire che il Corsera non è più un giornale indipendente, che ha perso il suo ruolo storico, che via Solferino va in soccorso del centrosinistra perché ne vede franare il consenso.

«Non posso che ringraziare Paolo Mieli - afferma il leghista Calderoli - perché il suo intervento un mese prima delle elezioni significa che la sconfitta della sinistra è segnata». Ovviamente è contento Romano Prodi, anche per la «maretta» che il quotidiano milanese ha suscitato nella Cdl. «E’ una giornata - dice il Professore a Catania - piena di soddisfazioni. Quella del Corriere è una posizione tranquilla di chi dice “vogliamo il centrosinistra al governo perché è una garanzia migliore di governabilità e stabilità per il Paese”».

Ma non tutti nell’Unione esprimono la stessa soddisfazione. Sembra masticare amaro D’Alema (Mieli non lo cita tra i leader del centrosinistra che hanno dei «meriti»). Tanto che il presidente dei Ds liquida così l’editoriale del Corsera: «Ora mi accontento che ci votino. Non do grande peso a queste posizioni. Se a loro va bene Fassino, che io sostengo in pieno...». E al presidente dei Ds non va giù «l’idea che gli organigrammi dei partiti e dei governi siano decisi nei giornali, non riguarda solo il Corriere ma anche altri grandi giornali».

L’editoriale di Mieli è stato vivisezionato dai partiti alla ricerca di reconditi obiettivi. Suscitando nella Cdl, ma anche tra gli esponenti del centrosinistra, una ridda di interpretazioni sugli scenari politici futuri. Non ha colpito tanto il passaggio in cui Mieli auspica la vittoria dell’opposizione che avrebbe «i titoli per governare al meglio i prossimi anni, anche per come Prodi ha affrontato in campagna elettorale le numerose contraddizioni interne». E nemmeno la parte dedicata al «deludente esito del quinquennio berlusconiano».

Ciò che invece ha messo in moto la fantasia dei politici, è l’elenco di leader dell’Unione ai quali Mieli attribuisce dei «meriti»: Rutelli, Fassino, Pannella, Boselli e perfino Bertinotti. Più freddo con Fassino con il quale il Corriere ha avuto contrasti molto spigolosi, Mieli - come dicevamo - poi non cita D’Alema. Ringrazia invece Rutelli per il quale quello di Mieli è un «investimento e non un’investitura». Ma c’è ancora un’altra parte dell’editoriale che ha fatto lievitare i retropensieri. Quando Mieli auspica una crescita dei partiti guidati da Fini e Casini. Ma uno dei due diretti interessati, cioè Fini, lo considera «uno smaccato tentativo di seminare zizzania» nella Cdl; un modo di presentare An e l’Udc come i cavalli di Troia della sinistra e nascondere le «profonde divisioni» dell’Unione. Per il vicepremier una cosa è chiara: il centrodestra «vince o perde tutto insieme».

E Casini? Il suo commento è più soft. Definisce «inconsueto» il fatto che un giornale indipendente inviti a votare per uno schieramento. Ricorda maliziosamente che quando il Corriere scese in campo per il referendum sulla fecondazione assistita, gli italiani non lo seguirono. Infine, avere indicato l’Udc tra i partiti da votare, per Casini è «una foglia di fico»: «Non per me, ma per il direttore e amico Mieli». Duro invece il ministro Pisanu: «Il Corriere ne dovrà rendere conto ai suoi lettori».


INES TABUSSO