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LA STAMPA
16 dicembre 2005
Ma la colpa non è dei giudici
Carlo Federico Grosso

GLI ultimi sviluppi delle indagini milanesi, che hanno condotto all’arresto di Fiorani e di alcuni suoi collaboratori, sono particolarmente eclatanti. Stando alla ipotesi accusatoria, non ci troveremmo più di fronte ad una mera somma di operazioni finanziarie illecite, sia pure di rilevante gravità e di particolare sgradevolezza; ma ad una vera e propria organizzazione del crimine che si sarebbe sviluppata all’ombra di una banca, e che sarebbe stata finalizzata ad una attività di appropriazioni indebite, riciclaggi e aggiotaggi a danno di risparmiatori e correntisti. Tramite la realizzazione di tali reati sarebbero stati assicurati ingenti vantaggi patrimoniali illeciti ai presunti associati a delinquere ed a terzi, alcuni dei quali, si sussurra, sarebbero politici nazionali di rilievo. Tutto ciò si sarebbe verificato nella totale inerzia, se non addirittura nella connivenza, degli organi di controllo interni, esterni o addirittura istituzionali.
L’intera vicenda crea grande impressione e preoccupazione. Stupisce e addolora tuttavia, soprattutto, che essa si sia potuta verificare e sviluppare nella imperturbabile inerzia, se non addirittura nella presumibile connivenza, della massima istituzione di controllo bancario del Paese, e nella altrettanto imperturbabile inerzia del potere politico nazionale. Nonostante che i grandi scandali Cirio e Parmalat avessero, alcuni anni fa, scosso la coscienza del Paese e dato l'avvio ad un vivace dibattito sulle cause della amoralità dilagante del mondo degli affari e della finanza, e sui possibili rimedi esperibili sul terreno del costume, della prassi e della innovazione legislativa, gli organi di controllo non hanno funzionato, e governo e Parlamento non hanno fatto la loro parte, non riuscendo neppure ad approvare una decente legge organica di tutela del risparmio. Né può rallegrare più di tanto il tono complessivo delle reazioni politiche di ieri e ieri l'altro ad uno scandalo che avrebbe meritato ben altri commenti.
Di fronte alla inerzia degli altri poteri dello Stato, non si può, allora, non apprezzare che esista, quantomeno, ancora «un giudice a Berlino» in grado di smascherare le trame illecite più vergognose, colpire i colpevoli, bloccare truffe e ladrocini. In astratto non è un bene che ad intervenire sia soltanto la magistratura, poiché la magistratura reprime e non previene, mentre sarebbe assai preferibile riuscire a prevenire. Ma se gli altri poteri dello Stato latitano o sono appannati, sia ben accetto l'intervento delle procure della Repubblica e dei giudici chiamati a valutare i risultati delle loro indagini. Purché, ovviamente, il controllo di legalità avvenga nel totale rispetto delle garanzie e dei diritti riconosciuti dai codici penali, e senza inutili ostentazioni di potere.
Al di là dello scandalo finanziario, e dei suoi risvolti giudiziari e politici, in primo piano si pone comunque il problema della immagine internazionale dell'Italia, già scossa dagli scandali pregressi, ed intaccata dal mancato funzionamento del controllo istituzionale sulla ultima vicenda di finanza illecita. Si tratta di un profilo di grandissimo rilievo, che una peculiare disciplina dei meccanismi di funzionamento interno della Banca d’Italia impedisce di risolvere con atti amministrativi di imperio. Non vorrei che fosse ancora una volta la magistratura, magari quella che si sta muovendo in questi giorni con maggiore incisività sul terreno della attività giudiziaria, a risolvere anche questo problema. Non sarebbe sicuramente, ancora una volta, un messaggio internazionale positivo per il nostro Paese.
INES TABUSSO