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LA STAMPA
30 novembre 2005
Amnistia di fatto
di Carlo Federico Grosso


Il Parlamento ha approvato la ex Cirielli, non più salva-Previti a causa dell’emendamento che ha escluso l’applicazione delle nuove norme sulla prescrizione nei processi in fase di giudizio. Il testo emendato è un po’ migliore di quello originario. L’esclusione dell’applicazione della nuova disciplina nei processi che hanno raggiunto la fase del giudizio evita quantomeno che le disposizioni che accorciano la prescrizione travolgano centinaia di processi in corso. Permangono peraltro profili di grave irragionevolezza.

E’ irragionevole che nei confronti di numerosi reati, fra i quali il peculato, la corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio, la concussione, molti reati economici, sia stato previsto un accorciamento rilevante dei tempi della prescrizione senza avere preventivamente messo in cantiere una riforma dell’organizzazione giudiziaria e dei codici penali in grado di velocizzare le cadenze dei processi. L’inversione logica nella trattazione dei problemi è palese. Prima si sarebbero dovute garantire le condizioni per eliminare l’attuale eccessiva durata dei processi, e dopo definire la lunghezza della prescrizione tenendo conto dei tempi processuali abbreviati. Ignorando questa regola elementare, la riforma, quantomeno in alcuni settori di criminalità, rischia di trasformarsi in una sorta di amnistia di fatto destinata a procrastinarsi nel futuro chissà fino a quando.

Né vale obbiettare che la riduzione dei tempi necessari a prescrivere in molti casi non è elevata, e che in altri la durata diventa addirittura più lunga. Il differente impatto della nuova disciplina sui singoli reati pone, in realtà, un’ulteriore questione di ragionevolezza: la durata della prescrizione rischia di diventare la conseguenza casuale della pena prevista anni fa da un legislatore diverso, che, sicuramente, non poteva immaginare che, anni dopo, la sua scelta avrebbe condizionato in un modo piuttosto che in un altro il tempo necessario ad estinguere i reati. La realtà è che la graduazione della pena e la determinazione dei tempi della prescrizione dovrebbero essere definite in un unico contesto, poiché soltanto così il legislatore è in grado di determinare con razionalità la disciplina che intende realizzare. Desta inoltre qualche preoccupazione il secondo grande capitolo trattato dalla legge: la nuova disciplina dei recidivi, cioè delle persone che, essendo state condannate per un reato, ne commettono successivamente un altro. Qui la scelta politico-criminale adottata è netta. Nei confronti dei recidivi si prevede un forte, indifferenziato, inasprimento del trattamento penale, che si realizza attraverso un significativo aumento della pena, un consistente allungamento dei tempi della prescrizione, una forte restrizione dei benefici previsti dalla legge penitenziaria.

In questi termini la nuova disciplina della recidiva non mi persuade. E’ giusto che nei confronti di criminali pericolosi il diritto penale debba essere rafforzato (in questa prospettiva la legge prevede opportunamente un aumento delle pene stabilite per taluni reati di mafia). Non è tuttavia ragionevole che si introduca un appesantimento indifferenziato delle pene ed una limitazione indifferenziata dei benefici penitenziari nei confronti di tutti i recidivi, che possono essere soltanto piccoli delinquenti di strada, tossicodipendenti, persone emarginate poco pericolose. I possibili effetti sulla gestione carceraria dei detenuti sono, per altro verso, preoccupanti. Già oggi gli istituti di pena sono sovraffollati. Il nuovo trattamento generalizzato dei recidivi determinerà un ulteriore incremento dei carcerati. Nelle prigioni entreranno persone senza speranza di un qualche beneficio o premio. Diventerà pertanto sempre più difficile controllare la detenzione e si rischierà di aprire una nuova stagione di rivolte carcerarie.

La realtà è che non si può pretendere di gestire la criminalità facendo affidamento soltanto sugli strumenti della repressione. La criminalità deve essere piuttosto fronteggiata bilanciando le esigenze della difesa sociale con quelle della funzione rieducativa della pena e di un trattamento penitenziario coerente a tale funzione. Lo stabilisce la stessa Costituzione quando nell’art. 27 comma 3 prevede che le pene devono essere umane e devono tendere alla rieducazione del condannato.
INES TABUSSO