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LA PADANIA
27 ottobre 2005
I giornali e le tv sono servi del potere
Carlo Passera intervista Massimo Fini

Massimo Fini, questa sera il mondo politico sarà di nuovo incollato davanti alla televisione, c’è la seconda puntata di Celentano...
«Celentano è un cantante straordinario, cui siamo tutti legati, ne ricordiamo la voce, i testi (che peraltro non scrive lui) eccetera. Ma è clamoroso che costui diventi un profeta, per degenerazione dei tempi e grazie al potere televisivo; non posso prenderlo sul serio come messia, quel che dice è poi totalmente indifferente... Che abbia suscitato un canaio dà l’idea di come siamo ridotti. Ecco, non si può avere tutto nella vita: Celentano è un grande menestrello, ma è decerebrato, non ha colpe ma non può essere un protagonista politico. È il riflesso della degenerazione culturale del nostro mondo, ne abbiamo già parlato: una volta le categorie di pensiero le davano i filosofi, oggi Maurizio Costanzo, Simona Ventura, Paolo Bonolis e Celentano. La televisione ha un’importanza decisiva in questo processo, perché ormai un rutto di Costanzo uccide La critica della ragion pura di Immanuel Kant».
Comunque sia, RealPolitik ha riproposto il dibattito sull’egemonia della sinistra in televisione. Cosa ne pensi?
«Tutti questi problemi nascono da un fatto determinante: la situazione oligopolista, o addirittura monopolista, della televisione italiana.
...Non è un problema di oggi. La tv è monopolista (e peraltro molto bella) all’epoca di Ettore Bernabei, quando è dominata dalla Dc; diventa oligopolista quando alle tre reti pubbliche si affiancano le private di Silvio Berlusconi. Poi, quando il Cavaliere va al governo, segue le orme di chi l’ha preceduto e occupa la Rai, sancendo un monopolio di fatto. In questo, ribadisco, non agisce in modo diverso rispetto al passato, l’aggravante è che già possiede le sue tre televisioni. Quindi bisogna dire innanzi tutto: se non si dà un nuovo assetto al piccolo schermo, se non lo si apre al libero mercato, ci troveremo sempre di fronte a problemi insolubili. Posso fare un esempio?».
Certamente.
«Chi decide se un presentatore, un giornalista televisivo è bravo? Solo il mercato può farlo. In un assetto pluralista, se è vero che Santoro è un ottimo professionista, semplicemente troverebbe lavoro da un’altra parte. Invece così ci tocca il paradosso in base al quale diventa un martire: grottesco per un giornalista che per un decennio ha potuto fare quel che voleva. Questo è il dato di fondo: qualunque governo che avesse davvero a cuore la pluralità dell’informazione dovrebbe lavorare in questo senso».
La classica obiezione di Berlusconi è: l’Ulivo non ha affrontato questi temi - né la legge sul conflitto di interessi, né la riforma televisiva - nel quinquennio durante il quale ha governato...
«A me non importa nulla delle polemiche tra Ulivo o Cdl. Io sono un cittadino italiano e ho diritto ad avere una situazione pluralista in un settore decisivo per la democrazia. Il rimpallo di accuse tra gli uni e gli altri fa il gioco di entrambi, non tutela il diritto del cittadino e lascia la situazione immutata».
Dunque, tu dici: il contesto è tutto sbagliato. Ciò premesso, come valuti le polemiche di questi giorni, le lamentele della Cdl rispetto a una tv di Stato sbilanciata nel passato e che rischia di esserlo anche nel prossimo futuro?
«La destra (e penso soprattutto a quella vera, ex-missina) ha un deficit culturale grave. Il problema è questo: in cinquant’anni non ha mai elaborato cultura pur essendo nelle condizioni più favorevoli per farlo. Quando sei ghettizzato - e loro lo sono stati per decenni - che altro resta se non occuparsi di cultura? A parte la breve parentesi della Nuova Destra, non l’hanno fatto. Ora, tornati all’onor del mondo, si sono trovati senza personale umano di valore».
Tu parli dell’ex-Msi, ossia di An. Ma il maggior partito di centrodestra è Forza Italia...
«Fi è totalmente disinteressata alla cultura. Dagli avversari politici bisognerebbe copiare almeno le cose buone: certamente c’è stata per decenni un’egemonia asfissiante della sinistra su tutto il mondo intellettuale, ma anche perché questi ci avevano puntato. Qui invece non c’è stato e non c’è alcun investimento... Si dice: non esiste satira di destra. È vero. Ma non è stato sempre così. La satira, benché nata a sinistra (le vignette di Giuseppe Scalarini sono di fine Ottocento; L'Asino di Guido Podrecca e Gabriele Galantara è di inizio Novecento: erano tutti socialisti), si sviluppò bene a destra, basti pensare ai tanti autori attivi sotto il fascismo: Leo Longanesi e Mino Maccari polemisti irriverenti, Curzio Malaparte, Alberto Giannini direttore del Becco giallo... Facevano ottima satira contro il fascismo, perché la migliore è quella che colpisce la propria parte, non l’avversario politico».
Non si può dire lo stesso della satira odierna.
«È vero, perché è tutta schierata a sinistra, la destra non è stata nemmeno in grado di recuperare questa sua cultura, questa tradizione. Eppure sarebbe più attrezzata per far satira; i suoi esponenti sono individualisti e quindi in grado di prendere in giro anche se stessi. Al contrario, a sinistra resta sempre qualche legame inconscio col materialismo scientifico, cosicché quando un uomo di sinistra fa satira contro la propria parte assume sempre l’aria di uno che l’ha combinata grossa».
Dici che c’è una mancanza di “materiale umano” nel centrodestra per proporre alternative valide alla sinistra, nell’informazione televisiva (e non solo). Per la verità, sembra che anche quei pochi professionisti capaci siano stati trascurati: Guerri, Veneziani, Moncalvo, Ferrara, Belpietro, Buttafuoco, Feltri, Zecchi, tu stesso, anche se non sei riconducibile alla destra...
«Premessa: io vengo del tutto strumentalmente indicato come intellettuale di destra. Ma io non sono né di destra, né di sinistra, sono contro entrambe, le farei saltare in aria...».
Comunque, la Cdl avrebbe potuto puntare su personalità indipendenti come la tua, o su alcuni degli altri che ho citato, non trovi?
«È vero che la destra non solo non aveva materiale umano, ma ha mortificato quel poco di cui disponeva. Penso a Luca Barbareschi, oppure a Gennaro Malgieri... Mosche bianche, ma ha prevalso una logica lottizzatrice diversa. La stessa che mette in atto la sinistra: però quest’ultima, essendo stata egemone per cinquant’anni, ha un materiale umano più collaudato, non solo in campo artistico e giornalistico, ma anche a livello dirigenziale. Sa fare anche meglio le mascalzonate. Sono competenze che non si creano in un giorno, né in un mese, né in un anno. Quelli han lottizzato avendo a disposizione personaggi anche di valore; questi, avendone pochi, li hanno pure mortificati».
Giordano Bruno Guerri sostiene: hanno preferito gli “amici” mediocri ma sicuri rispetto a professionisti “di area”, capaci ma indipendenti...
«Sì, ma questa è un po’ la stessa logica lottizzatrice. Se però hai un serbatoio “sicuro” abbastanza ampio, peschi anche quelli bravi...».
Anche la carta stampata è prevalentemente schierata a sinistra...
«...per gli stessi motivi: il mondo della cultura - mettiamoci dentro anche i giornalisti - è condizionato dal lavoro molto profondo fatto dal Pci a partire dagli anni 50. Hanno introitato la lezione di Antonio Gramsci».
Finora abbiamo parlato di sistema televisivo e abbiamo messo in luce come sia strutturato in modo sbagliato e come tutti i problemi nascano proprio da questo. Possiamo dire le stesse cose per la carta stampata?
«Il nostro Paese presenta alcune anomalie ben precise. Una è quella descritta, gli assetti televisivi. La seconda riguarda invece proprio i giornali: anche nella carta stampata il mercato è estremamente ridotto, i gruppi che contano sono solo tre. Nelle altre democrazie c’è un poco di libertà, che garantisce almeno il piacere di sfogarsi (gli inglesi in questo sono maestri, pensiamo allo “speakers corner” ad Hyde Park). Qui tutto è ridotto al minimo».
Si dice spesso che uno dei problemi della carta stampata sia la mancanza di editori puri. È una questione reale?
«Sì. Nella mia esperienza personale ho incontrato editori puri, o quasi puri. Ad esempio, Rizzoli prima che acquistasse il Corriere della Sera era un editore puro che cercava di vendere al meglio quanto stampava. Io ho lavorato al giornale di punta di quella casa editrice, l’Europeo, il settimanale più politico, e noi non avevamo alcun contatto col mondo dei partiti (salvo la redazione romana, ovvio), il nostro direttore Tommaso Giglio ce lo proibiva. Una situazione simile c’è stata in tutto il mondo della carta stampata fino alla metà degli anni 70, tanto da consentire ad alcuni giornalisti (giudicabili come si vuole, ma certo indipendenti dal potere) di affermarsi: penso a Indro Montanelli, a Enzo Biagi, a Giorgio Bocca... Poi, il sistema partitico ha preso decisamente il sopravvento e i giornalisti si sono via via sempre più legati ai politici perché quello era ed è il modo per fare carriera. Da allora non c’è importante direttore di giornale che non faccia il giro delle sette chiese, ora addirittura non è neppure più necessario perché le nomine sono già pre-determinate... Il Corriere della Sera degli anni 50 e 60 era il giornale della borghesia e faceva naturaliter gli interessi di questa, così come l’Unità difendeva il proletariato. Ora, invece, i giornalisti che contano, fanno parte integrante dell’oligarchia politica e tutelano solo gli interessi di quest’ultima».
Tu dici: parte integrante. Sono anche parte importante? I maggiori giornalisti sono davvero spesso, come si dice, al centro dei giochi, burattinai oppure comunque protagonisti?
«No, non sono parte importante. Abbiamo venduto la nostra libertà per un piatto di lenticchie».
Eppure alcuni, penso a Paolo Mieli, a Giuliano Ferrara, passano per essere gran manovratori...
«Sono casi diversi. Giuliano Ferrara non è un giornalista, è un politico cui piace la parte del consigliori. Come giornalista ha sempre fallito, e a ben pensarci anche come consigliori: ma non lo dico con astio, gli riconosco un’eleganza, uno stile che manca ai più. Paolo Mieli è invece un giornalista che si è perfettamente integrato nel sistema di potere».
Ma se, per capirci, il Corriere attacca frontalmente il progetto federale, dobbiamo pensare a un piano politico preciso, che magari vede Mieli tra i protagonisti, oppure una scelta di quel tipo avviene in modo molto più banale, direi casuale?
«Non immaginiamoci chissà quale manovra, chissà quale Spectre. Queste cose avvengono semplicemente per osmosi. Appartengono alla stessa cricca, quindi...».
Tu non appartieni “alla cricca”. Con quale realtà ti sei trovato a doverti confrontare?
«Non ti censurano, ti emarginano lentamente, ti circondano di silenzio, da quando i roghi non esistono più è questo il modo migliore per tappare la bocca a un individuo, espellendolo così dal circuito che conta. Io mi sono difeso abbastanza bene, ho fatto della mia emarginazione un punto di forza, sono più noto di tanta gente che scrive ogni giorno sul Corriere, il che è abbastanza straordinario. È un po’ l’effetto paradosso che si ebbe all’inizio con la Lega: a furia di demonizzarla, la fecero brillare».
Hai pagato un prezzo alto per la tua libertà?
«Altissimo, devo fare dieci per avere uno. Per altri è il contrario, pensa, che ne so, a Carlo Rossella, uno che ha pubblicato i diari di Hitler nel 1988, dovrebbe stare perennemente nascosto in Nuova Zelanda sotto una pecora merinos... Io mi sono salvato perché già m’ero fatto un nome prima che la politica stringesse la sua morsa sul mondo del giornalismo. Un giovane che entra adesso subisce invece una pedagogia infernale: o china la testa o il suo destino è segnato».
Dicevi prima: in Italia gli spazi di libertà sono ancor minori che negli altri Paesi. Dunque il rapporto tra stampa e potere è ancor più stretto? La prima è ancor più subalterna alla seconda?
«Il rapporto in realtà non è poi dissimile da quello che si registra anche negli altri Paesi. I media non a caso vengono chiamati “strumenti del consenso”, sono geneticamente al servizio del potere. Ci si fa delle grandi illusioni sul “quarto potere”. La carta stampata nasce tra 600 e 700 al servizio dei potenti. Il primo giornale francese, la Gazette, diretto da colui che è considerato il padre del giornalismo d’Oltralpe, Théophraste Renaudot, era finanziato dal cardinale Richelieu. Così anche il primo giornale tedesco, al soldo di un principe locale... La stampa inizialmente era così screditata presso la gente che le notizie non venivano credute. Il primo cronista italiano, Luca Assarino, sentì il bisogno di chiamare il proprio giornale Il Sincero, per cercare di vincere la diffidenza; peccato che lui stesso fosse una spia al servizio del principe di Piemonte... Da lì, passando per Bel Ami e arrivando ai giorni nostri, non è cambiato nulla, se non in peggio. Un tempo era possibile fare delle gazzette con pochi soldi e, dunque, avere giornali relativamente liberi; oggi per fare giornali che contino - per non parlare delle televisioni - occorrono investimenti di miliardi. E si sa chi ha i soldi...».
Conta poco la “personale disposizione” del giornalista a essere libero oppure asservito?
«Vi sono molti giornalisti che fanno con coscienza il proprio mestiere; ma in linea generale la stampa è funzionale al potere, in Italia come altrove».
In Italia come altrove? E il mito della stampa anglosassone?
«Ma per carità! Tu pensa allo scandalo Watergate, fu una manovra per abbattere per una sciocchezza quello che era uno dei migliori presidenti americani, Richard Nixon, che chiuse la vicenda del Vietnam, aprì alla Cina, non era mafioso ma in Italia, dove soprattutto a sinistra siamo particolarmente idioti, è passato alla storia come “Nixon boia”. Kennedy iniziò la guerra del Vietnam, fece un disastro alla Baia dei Porci, sfiorò la Terza Guerra Mondiale, ma aveva la moglie carina e quindi passa per un grande presidente. Questo, anche grazie all’azione dei media internazionali».
Oggi nei giornali comanda di più il potere politico o quello economico?
«È un’oligarchia a dominare i giornali: potere politico ed economico sono strettamente legati».
Che giornalisti ti piacciono?
«Penso a Emanuela Audisio di Repubblica, che forse non a caso si occupa prevalentemente di sport. Poi Gian Antonio Stella, Federico Rampini. Ma non hanno la valorizzazione che avrebbero avuto qualche decennio fa».


[Data pubblicazione: 27/10/2005]
INES TABUSSO