Ivan A. Goncarov - Oblomov

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VERSOLIBERO
00martedì 11 luglio 2006 23:46
Ivan Aleksandrovic Goncarov
Oblomov
introduzione di Remo Faccani

1. È la tarda mattinata d’un caldo, polveroso giorno di festa - del 20 luglio forse, giorno di Sant’Elia (Il’jà, in russo) -, fra le stradette, gli orti, i terrains vagues d’un rione dell’estrema periferia pietroburghese a metà Ottocento. Lungo un marciapiede di tavole di legno (siamo alle pagine finali dell’Oblomov) camminano fianco a fianco il ‘russo-tedesco’ Andrej Stolz, uno dei protagonisti del libro, e un letterato di sua conoscenza che ha scopertamente le fattezze di Goncarov, così come ci sono tramandate dai suoi contemporanei: «tondo, il volto apatico, gli occhi pensosi che parevano assonnati» . Prima di accomiatarsi dal suo pubblico, Goncarov infila dunque nel romanzo un proprio veloce autoritratto, un po’ alla maniera in cui certi pittori si compiacevano di prestare le loro sembianze a una figura marginale di qualche loro tela. (A proposito dell’aspetto dello scrittore, ricordiamo un passo della raffigurazione ‘dal vero’ che ce ne ha lasciato Angelo de Gubernatis, ripresa sullo scorcio del XIX secolo anche da noti studiosi russi come Semën Vengerov: «Di mezzana statura, grosso, lento nel cammino e in ogni suo movimento, con la fisionomia impassibile e lo sguardo quasi spento, egli pare affatto indifferente per i travagli della povera umanità che si agita intorno a lui. E pure niente passa inosservato al suo sguardo penetrante[...]. Il solo suo sorriso bonaccio, e nello stesso tempo furbo, illuminando il suo volto con una momentanea animazione rivela la misura delle sue forze».)

Nell’opera che resta il suo capolavoro - e, per vari aspetti, un unicum della letteratura russa e non solo russa -, Goncarov sembra volerci presentare la storia del suo eroe Il’jà Il’ic Oblomov come una trascrizione di vicende rievocate da Stolz, che di Oblomov fu vecchio «amico e compagno»: e rievocate durante una malinconica passeggiata che dovremmo figurarci perdutamente lunga, calata nel tempo sospeso delle estati di Pietroburgo, con il loro evanescente confine tra giorno e notte. Nelle righe che suggellano il romanzo, Stolz dice: «Ora ti racconterò: lasciami riordinare i pensieri e i ricordi. E tu prendi nota [...]». Dopodiché arriva la secca conclusione dell’autore, che suona come un rinvio all’inizio del libro (un invito a riviverne più da vicino la fluida totalità, ricomponendolo idealmente dalla prospettiva di chi è giunto al termine di uno straordinario ‘viaggio nel testo’?): «E gli raccontò quel che qui è scritto».

Ma la storia che il romanzo ci mette sotto gli occhi la si deve a un narratore ‘onnisciente’, come suol dirsi; e Stolz non può che fornire una testimoniazanza lacunosa e decisamente parziale dei casi di Oblomov. Tantopiù che il rigido, pedestre, scialbo universo di Stolz e quello di Il’jà Il’ic, così magmatico e placentare, hanno potuto solo sfiorarsi, restando di fatto impenetrabili uno all’altro. Eppoi, l’‘uomo di lettere’ che sorprendiamo al fianco di Stolz sa già tutto, naturalmente; e lo sa ancora meglio, in quanto non paiono mancargli ragioni di ripetere fra sé e sé l’oraziano «de te fabula narratur».

A Pietroburgo Goncarov condusse un’esistenza ritirata e umbratile, anche se tutt’altro che oziosa, ma dedita in gran parte ad attività diverse dalla scrittura. Per le accese battaglie ideali e ideologiche del suo tempo non provò quasi nessun interesse. Abitò «piccoli appartamenti da scapolo» - e all’epoca del romanzo ne occupava uno «poco confortevole e piuttosto buio [...], dove alloggiò per trent’anni». (Si trovava in un edificio non molto lontanto dal Giardino d’estate, che per puro caso ebbi modo di conoscere bene in età sovietica, trasformato in un alveare umano; e di vederlo galleggiare tristemente - fra un inverno e una primavera - al centro di un cortile velato di fuliggine che ignorava la meravigliosa luce del gelo e del disgelo nei parchi e sui lungofiumi della città.)

Lo scrittore fu accudito da servi d’origine campagnola non meno singolari, talvolta, dello Zachar di Oblomov. Ma benché nato a Simbirsk, città affacciata sul Volga e sulle steppe d’Oltrevolga, da quelle parti - a differenza del suo eroe, differenza non trascurabile - egli mai ebbe un’Oblomovka, il remoto eden di una sia pur esigua, stralunata proprietà di campagna. Non aveva mai posseduto né terre né ‘anime’, confessava nel 1888. Era «vissuto in campagna solo due anni», «da piccolo», e quindi senza nessuna possibilità di stabilire rapporti con i contadini e il loro mondo.

Egli aggiungeva poi che «all’interno della Russia», cioè all’interno degli sconfinati spazi che lambivano o circondavano Simbirsk e le altre due città della sua vita, Mosca e Pietroburgo, aveva «curiosato poco e fugacemente». E questo è un punto di contatto davvero sostanziale fra Goncarov e il suo personaggio, su cui mi capiterà di tornare: la mancanza di curiosità, con tutto ciò che la motiva e tutto ciò che implica. Perfino un viaggio di oltre due anni intorno al mondo, che lo scrittore compì su un veliero da guerra della flotta zarista, gli dettò impressioni - raccolte nel libro La fregata «Pallade» (185[SM=g27989] - che non fissano tracce di autentica curiosità per i luoghi, i paesaggi, le cose, gli uomini e le donne visti.

Si direbbe che per Oblomov, come per il suo creatore, la curiosità turbi il fragile ordine delle cose, il precario equilibrio dei legami dell’individuo con l’ambiente che lo circonda. E si direbbe che la mancanza di curiosità rappresenti una specie di istintiva, naturale autodifesa dal rischio - innaturale - di essere coinvolti, di trovarsi obbligati a intervenire e interferire. Ma da tutto questo trapela anche dell’altro: un disagio, una vena di malessere provocati, per rifarsi all’ultimo Montale, da «una realtà incredibile e mai creduta». O da una realtà sconnessa, vacillante della quale s’è perduto il codice? L’inguaribile spaesamento che affligge Oblomov, e dentro cui Oblomov annaspa, è forse impressa già nel suo nome, secondo l’ipotesi di qualche critico russo: il tema del suo nome - tema in senso linguistico, e non soltanto linguistico, aggiungerei - è lo stesso della parola oblomok (‘frantume’, ‘scheggia’), che balugina ad esempio in una lirica pubblicata da Evgenij Baratynskij nel 1842: «La superstizione: questa scheggia / di un’antica verità! Crollò il tempio; / e in quelle rovine il postero legge / un muto enigma privo di senso...».

Comunque sia, l’‘esperienza oblomoviana’, a considerarla nella sua eccezionale originalità, rifugge dai semplicistici tentativi di porla sotto il segno del retaggio storico - e di generalizzarla. Nulla, ovviamente, impedisce oggi al lettore - come non glielo impediva in passato - di guardare all’eroe del romanzo di Goncarov come a un’espressione ottocentesca dell’‘anima russa’ o ad una patetica incarnazione d’una nobiltà russa soprattutto di campagna, che i tempi si stavano lasciando alle spalle. Ma sulla scorta di quei due identitik si cercherebbe invano di catturare il nostro Il’jà Il’ic e di ingabbiarlo in una varietà di ‘realismo’ che non era della specie coltivata da Goncarov, - se mai lo scrittore ne coltivò davvero una.

2. La prima idea del romanzo che s’intitolerà definitivamente Oblomov - dopo che per diversi anni, in fase di gestazione, s’era chiamato Oblomovšcina (cioè Oblomovismo) - risale al 1848, o addirittura al 1847, se vogliamo credere a Goncarov e alla dubbia precisione dei suoi ricordi. Nel marzo del 1849 l’Almanacco letterario illustrato edito dalla redazione della rivista «Sovremennik» [«Il contemporaneo»] stampa Il sogno di Oblomov, uno dei futuri capitoli dell’opera. Ma la stesura di questa avanza poi con molta lentezza, fra lunghe pause di silenzio e di letargia, fino all’estate del 1857, quando conosce una «miracolosa» impennata.

Lo scrittore all’inizio di luglio, seguendo i consigli del suo medico, raggiunge Marienbad per riposarsi e ‘passar le acque’; e di lì a qualche giorno rimette mano al romanzo che, non dimentichiamolo, solo in corso di stampa, un anno e mezzo più tardi, passerà dall’originaria scansione in tre parti - in ‘tre movimenti’, si potrebbe forse dire, considerando la passione di Goncarov per la musica - alla struttura quadripartita che gli conosciamo. Ogni giorno, dopo la passeggiata mattutina, lavora metodicamente «dalle dieci alle tre del pomeriggio». Nel giro di un mese o poco più egli rivede a fondo la prima parte dell’Oblomov, già scritta tra il 1849 e il 1850 («Per vari giorni», racconterà in seguito, «non ho fatto che rimuovere letame a badilate. E tant’altra robaccia»); scrive la seconda parte e s’inoltra decisamente nella terza (che diventerà, come s’è detto, terza-quarta). «La selva ormai si dirada», fa sapere a un’amica il 10 agosto, «e scorgo in lontananza... la fine»: a questo punto la sua fatica, così pensava, «non sarebbe stato difficile concluderla a Pietroburgo». Ma ci vorranno mesi - un anno abbondante - perché egli sbuchi realmente dal sottobosco e il libro possa dirsi terminato, e perché, dopo non poche incertezze, nel settembre del 1858 approdi alla redazione delle «Otecestvennye zapiski» [«Memorie patrie»], ancora dirette in quegli anni da Andrej Kraevskij, editore e giornalista che, ‘radicale’ in gioventù, è ormai su posizioni liberal-moderate (posizioni non così discoste dal modo di sentire dell’‘impolitico’ Goncarov).

Intanto, fra la tarda estate del 1857 e l’incipiente autunno del 1858 Goncarov, insicuro e bisognoso di rassicurazioni, s’è dato a leggere il libro, o almeno suoi singoli episodi, a uno stuolo di amici - fuori della Russia e poi in vari salotti pietroburghesi, o a casa propria, dove (la frase e la garbata ironia sono del giovane Tolstoj) «alla chetichella invita gli eletti ad ascoltare il suo romanzo». Sulle prime, com’è ovvio, si tratta di un Oblomov in versioni ancora ben lontane dallo stadio definitivo: un Oblomov ‘al grezzo’, che l’autore descrive «sepolto in mezzo all’argilla, ai rifiuti, con ponteggi, con attrezzi sparsi lì d’attorno, con brutture d’ogni specie». Ma l’opera riscuote consensi, si attira l’ammirazione perfino della bête noire di Goncarov, Ivan Turgenev, scosso soltanto dalla sua prolissità, che ritiene indispensabile arginare con una decisa potatura.

Ed ecco Goncarov - sullo scorcio del 1858, col libro già in bozze - mettere le mani avanti, ripetendo, come una specie di giustificazione non richiesta e abbastanza ossessiva, la giaculatoria di un curioso invito. Egli scrive al fratello: «Se qualcuno [lì a Simbirsk] s’interesserà alla mia nuova opera, consiglialo di non leggere la prima parte: è stata scritta nel 1849 ed è fiacca, smorta: non è all’altezza delle altre due, scritte nel 1857 e nel ’58, ossia quest’anno. Nel 1849 io non avevo chiaro in testa l’intero progetto del romanzo, e per giunta non possedevo la maturità di oggi». E pochi giorni dopo raccomanda a Tolstoj - un Tolstoj che ha trent’anni, cioè sedici meno di lui, ed è già l’autore della trilogia a sfondo autobiografico Infanzia, Adolescenza e Giovinezza e di una dozzina d’altri testi narrativi, fra cui i Racconti di Sebastopoli, La tormenta, I due ussari: «Non leggete la prima parte dell’Oblomov; se ne trovate il tempo, leggete la seconda parte e la terza: sono state scritte dopo, mentre la prima è del 1849 ed è scadente».

Il romanzo esce nei quattro fascicoli delle «Otecestvennye zapiski» pubblicati fra gennaio e aprile del 1859. Il successo del libro supera le aspettative dell’autore. Ed è, scrive Tolstoj in una lettera al critico Aleksandr Družinin dell’aprile 1859, «un successo non fortuito, chiassoso, ma sano», destinato a durare ben oltre «il pubblico dei nostri giorni». Per Tolstoj, l’Oblomov è un’opera «come non se n’erano viste da molto, molto tempo» - ed egli lo sta «rileggendo ancora una volta». Sta rileggendo anche la prima parte? Non lo precisa, ma non ci stupirebbe, se consideriamo l’attrazione che il quotidiano esercitò sempre sull’autore di Anna Karenina e la sua precoce ansia di fissare il quotidiano in una luce quasi di eternità.

VERSOLIBERO
00martedì 11 luglio 2006 23:49
Ivan Goncarov

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Ivan Aleksandrovic Goncarov nacque a Simbirsk nel 1812. Figlio di un facoltoso statale, dopo l'università entrò nella burocrazia imperiale: fu prima funzionario ministeriale poi censore. Conser vatore moderato, scapolo irriducibile, condusse una esistenza tranquilla monotona, interrotta solo una volta da un «eroico» viaggio per mare in Estremo Oriente. Morì a Pietroburgo nel 1891.
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Del suo viaggio in Estremo Oriente diede la descrizione ne La fregata Pallada (1855-1857). Ma già prima aveva favorevolmente impressionato la critica realista con Una storia comune (1847), romanzo a tesi sulle delusioni e la finale sconfitta di un giova ne idealista di provincia.
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Nel 1859 un nuovo romanzo, Oblomov , cui seguì dieci anni dopo Il burrone , lo fece entrare nel ristretto numero dei classici nazionali. Tipico di una certa inclinazione del romanzo russo, evidente per esempio in Turgenev, a svincolarsi dall'interesse spe cificatamente narrativo, "Oblomov" è la storia di un non-fatto, di una immobilità fisica e ambientale che i ritmi lenti, ossessi vi del racconto rendono con morbosa sottigliezza. Oblomov è un personaggio di non comuni qualità di cuore e intelligenza, ma vive nell'indolenza assoluta. Il suo amico Stol'c chiama il suo viver di rendita, sonnecchiare, contemplare, «oblomovismo». Per Stol'c il lavoro è vita e energia, per Oblomov un impaccio. Servito dal rozzo e fedele Zachàr, Oblomov vegeta e sogna: ogni specie di sogni. In essi domina Oblomovka, la proprietà dei suoi avi, che per pigrizia sta lasciando andare in rovina. Ama la giovane Ol'ga, si fidanza con lei, ma la lascia, atterrito dalla richiesta di lei di un radicale mutamento di vita, di una più attiva partecipazione alla gestione del patrimonio. Ol'ga sposerà Stol'c, mentre Oblomov sposa la sua padrona di casa, Aga fja Matveena, semplice e rozza ma brava massaia. Stol'c ammini strando Oblomovka l'ha fatta rifiorire e ha salvato Oblomov da una truffa che rischiava di rovinarlo, ma è troppo tardi per scuoterlo dal torpore in cui è caduto. Poco dopo Oblomov muore lasciando un figlio di cui si occuperà Stol'c, e un ricordo in cancellabile quanto conturbante della sua mitezza d'animo.
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Il personaggio di Oblomov, incatenato all'inazione da una spe cie di paralisi spirituale, è l'emblema di un aspetto tragico e affascinante dello spirito umano: quella riluttanza a accettare i "tempi" della realtà, che ha emblemi vulgati nel fatalismo orien tale, nell'esaltazione del primato della contemplazione sull'a zione, propria delle società culturalmente e intellettualistica mente avanzate ma profondamente represse da un potere politico e sociale dominante. Una situazione che era (anche) quella della Russia imperiale del tempo. Di qui il successo del termine oblo movismo che, usato per la prima volta dal critico *Dobroljubov, entrò subito nell'uso comune. All'assoluto immobilismo di Oblomov è opposto, nel romanzo, l'attivismo di Stol'c, eroe tanto positivo quanto, nella sua schematicità, espressivamente mancato. Oblomov è così il fulcro del romanzo e di un intero mondo. E' anche un tipico esponente della piccola nobiltà russa, e molti critici radicali del tempo poterono leggere il romanzo in chiave strettamente realista, come un atto di accusa sociale.
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Il nome di Goncarov è oggi legato unicamente a "Oblomov". Gli altri due romanzi, tolte le deliziose immagini di vita patriarca le de "Il burrone", sono di livello incomparabilmente inferiore. Considerato una delle opere più significative della produzione russa del secolo, "Oblomov" non ebbe, nonostante il suo immenso successo, influssi diretti sui successivi sviluppi letterari, non indicò linee di rinnovamento stilistico e di gusto. La sua irripetibilità, la sua non esemplarità, sono tutt'uno con la sua straordinaria e inflessibile suggestione: Goncarov riuscì a fissare una congerie di elementi preesistenti e di detriti trovati nella tradizione e nella moda contemporanea, in un organismo miracolosamente quasi compiuto, dotato di una infinita forza di irradiazione simbolica.
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