Il mestiere di vivere - Cesare Pavese

clopat
00martedì 19 ottobre 2004 14:58
Amo le opere di Cesare Pavese,nessuno come lui ha saputo descrivere le Langhe,Torino,le amicizie,gli amori difficili,la cultura americana,pero' "Il mestiere di vivere",cioe' il suo diario,trovato accanto al suo corpo senza vita nel 1950,e' un libro che amo e odio contemporaneamente:un diario solitamente e' qualcosa di intimo,di personale,che non dovrebbe mai essere letto da nessuno ed infatti qui affiorano le motivazioni profonde che hanno spinto lo scrittore al gesto estremo del suicidio.Senza dubbio le donne sono state tormento e passione dello scrittore:
"Una donna,che non sia una stupida,,presto o tardi,incontra un rottame umano e si prova a salvarlo.Qualche volta ci riesce.Ma una donna,che non sia una stupida,presto o tardi,trova un uomo sano e lo riduce a un rottame.Ci riesce sempre."
"Ma questa e' la piu' atroce:l'arte della vita consiste nel nscondere alle persone piu' care,la propria gioia di essere con loro,altrimenti si perdono".
"Se e' vero che ci si abitua al dolore,come mai con l'andar degli anni si soffre sempre di piu'?
No,non sono pazzi,questa gente che si diverte,che gode,che viaggia,che fotte,che combatte,non sono pazzi,tnto e' vero che vorremmo farlo anche noi."
"Sinceramente.Vorrei piuttosto morire io,che ricevere questa notizia di lei.Qui davvero vorrei credere in Dio per pregarlo.Che non muoia.Che non le accada nulla.Che tutto cio' sia un sogno.Che perduri un domani.Che piuttosto scompaia io."
"Chi non e' geloso anche delle mutandine della sua bella,non e' innamorato"
E l'ultima frase,del 18 agosto 1950:"..Sembrava facile,a pensarci.Eppure donnette l'hanno fatto.Ci vuole umilta',non orgoglio.Tutto questo fa schifo.Non parole.Un gesto.Non scrivero piu'"
WebMichi
00martedì 19 ottobre 2004 19:31
Studiato e amato, anche nel periodo buio della critica letteraria dagli anni '80 a poco tempo fa, mi è capitato di incrociarlo due volte negli ultimi mesi, leggendo l'esperienza di Fernanda Pivano, che lo ebbe come insegnante, e, anche se può sembrare paradossale, durante la discussione con un amico che delle Langhe, come me, ha un una sorta di culto.
Nel primo caso (la Nanda) leggevo dell'atteggiamento da cospiratore di Pavese quando le consegnava una copia clandestina de "L'antologia di Spoon River", ché Lee Masters proprio da Pavese fu scoperto) e se ne ricavava l'impressione già allora che vivere fosse per lui “mestiere” da apprendere con pena, fatica e scarsi risultati.
L'impressione, insomma, che l'arte fosse sositutiva della vita o meglio vita essa stessa «(Ho imparato a scrivere, non a vivere») unico tentativo di felicità.
Pavese diceva: «Quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno», e in questo credo rientrasse la sua paura di misurarsi anche e soprattutto con la vita amorosa (della sua possibile, anche se mai dimostrata, impotenza sessuale si parlò a più riprese tra i suoi biografi).

Nel secondo caso (la discussione con un amico, medico) parlando di Pavese non nascondo di avere provato sorpresa nell'apprendere che le Langhe sono tra le regioni italiane con il più alto tasso di suicidi, cosa che gli attuali studi di medicina del territorio e psichiatria stanno ancora cercando di attribuire a ragioni oggettive.
Impegnato a trovare motivi esistenziali e profondi del suo "vizio assurdo", non azzardo ovviamente l'attribuzione del suicidio di Pavese a questo fatto esclusivamente, ma potrei forse considerarlo come un'aggravante del suo percorso personale.
Petgirl
00martedì 19 ottobre 2004 21:53
Oggi sarebbe già da un pezzo in terapia psicanalitica e prenderebbe psicofarmaci per contrastare la depressione. Magari starebbe molto ma molto meglio, ma di sicuro non sarebbe stato il Cesare Pavese che ci è arrivato.
Mah![SM=x520494]
caulfieldh
00mercoledì 20 ottobre 2004 09:51
Per capire il pensiero di Pavese, la sua visione personale dell'artista e dell'importanza superiore delle opere rispetto all'umana vita, è interessante leggere la prefazione che scrisse al "Moby Dick" di Melville, da lui tradotta. Cito a memoria, scusate le omissioni.."..Melville impernia la sua opera del dolore dell'umana solitudine; visse abbandonato e non capito...della sua sofferenza non dobbiamo preoccuparci, senza essa le sue opere non sarebbero state le stesse..."
WebMichi
00mercoledì 20 ottobre 2004 20:38
Prendo dal libro che ho sotto il naso ("Il mestiere di vivere, 1935-1950", Torino, Einaudi,ed.1990, pg. 154) uno dei passi che più mi avevano colpito già alla prima lettura:""La massima sventura è la solitudine" (29 aprile 1939).
Il mal d'amore, forse, può avere contribuito, con altri elementi, al suicidio, ma se provo a ricordare la cronaca che degli ultimi giorni di vita azzardò lo storico Paolo Spriano,che lessi molti anni fa, nulla lasciava pensare ad un uomo mangiato dalla depressione amorosa del momento.
Piuttosto nell'"ordine" assurdo che diede ai suoi incontri e ai sui atti prima di risalire le scale dell'albergo torinese, mi sembrava d'intuire che il suicidio fosse l'ultimo passo, "normale" di un percorso che per lui aveva significato sconfitta piena alla solitudine che tanto temeva.
Il Cesare amoroso aveva una ben triste idea dell'amore sentimentale per la scarsa utostima al riguardo, e un'idea addirittura catastrofica riguardo l'amore carnale; credo che queste due idee, applicate ad una vita che, per lo scrittore di successo, lo esponeva spesso e volentieri alla mondanità (quella che gli aveva fatto conoscere l'attrice americana Constance Dawling, ultimo rabbioso fallimento sentimentale, a cui dedicò “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”)siano state tra le cose che più ruppero il suo scarso equilibrio personale.
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