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INES TABUSSO
00martedì 21 marzo 2006 00:16

IL MESSAGGERO
20 Marzo 2006

IL PASSO SERENO DEL MESSAGGERO
(di ROBERTO NAPOLETANO, Direttore del Messaggero, scelto da Berlusconi per il primo faccia a faccia con Prodi, moderato da Mimun)

“ROMA, il voto, e un giornale”. Lunedì 13 marzo abbiamo titolato così il fondo del Messaggero. Abbiamo preso un impegno con i lettori. Da qui al nove aprile racconteremo non solo gli avvenimenti, ma anche il loro senso. I mille sensi dei mille contenuti di cui ci occuperemo. Per aiutare il lettore a formarsi una sua idea e a esprimerla nel voto. Questo tocca a un giornale che vuole essere amico dei suoi lettori. E che ha deciso di rispettare la propria anima e la più intima (e privata) delle scelte ”pubbliche” di un cittadino.
Ricordiamo questo editoriale perché sabato scorso, a Vicenza, il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha indicato il Messaggero come uno dei quotidiani dai quali ”non dobbiamo lasciarci prendere la mano, dal loro pessimismo”, e si è domandato se «non siamo già in una situazione di pericolo per una vera e compiuta democrazia». Non commetteremo l’errore di abbandonarci a una replica stizzita. Vogliamo solo sottolineare che se in qualche circostanza siamo stati scomodi, è bene che si sappia che non chiediamo di essere comodi. E questo vale, a seconda dei casi, per l’una e per l’altra parte. Conserveremo sempre il passo sereno del Messaggero. Un giornale che denuncia senza infangare. Racconta i fatti. Scava e prende posizione sui contenuti. Ma non si schiera e non rinuncia ad ascoltare e rispettare i suoi lettori. I loro sentimenti, le loro idee, la loro autonomia di giudizio.
Avevamo scritto che, di qui al voto, ci saremmo impegnati a documentare e informare, per aiutare i lettori a scegliere con la loro testa. E mai avremmo contribuito a incendiare gli animi moltiplicando i veleni, infilandoci nel ventilatore dei teatrini televisivi e degli arruolamenti alla causa. Ecco, oggi ribadiamo che non consentiremo mai a nessuno di arruolare il Messaggero, a destra come a sinistra. I lettori giudicano ogni giorno, scegliendo il loro quotidiano in edicola, e sapranno giudicare in futuro. Noi siamo certi che faremo di tutto perché sentano il giornale come un amico di famiglia. Un compagno di viaggio affidabile.


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UN GRAVE ERRORE POLITICO
di ENRICO CISNETTO

Un errore. Per sé e per il Paese. Pur sapendo che in un clima così avvelenato esprimere un giudizio su quanto è accaduto a Vicenza - e che ho potuto vedere con i miei occhi - significa corre il rischio di beccarmi un'etichettatura di parte, che peraltro proprio non mi appartiene, voglio dire con chiarezza che a mio avviso Silvio Berlusconi ha commesso un grave errore politico. Prima di tutto per la sua causa, che è ovviamente quella di vincere le prossime elezioni.
Obiettivo che si rende possibile solo conquistando quella larga fetta di italiani che qualsiasi sondaggio ci dice essere ancora indecisi sul da farsi. Prima di tutto indecisi se andare a votare, e poi per chi tra le due coalizioni in gioco eventualmente spendere la propria preferenza. Ora, francamente non credo che l'aggressività scelta dal premier per far breccia in Confindustria, cioè in quello che - sbagliando - considera un campo nemico da conquistare o quantomeno da dividere, induca gli incerti a sceglierlo, e ancor prima ad andare alle urne. A Vicenza il Cavaliere ha parlato ai suoi, ha convinto chi era già convinto, ma dubito che gli incerti - che in misura ragguardevole sono suoi elettori (del 2001) un po' delusi e sfiduciati - si sentano trascinati da quel tipo di performance. Naturalmente la mia è solo una sensazione, può benissimo essere che il 9 aprile io sia clamorosamente smentito. Ma, certo, il suo è stato comunque un azzardo, che in qualche modo autorizza a pensare - come ho sentito dire a Vicenza da molti imprenditori "di base" al termine della clamorosa convention - che si possa essere il segno di una crescente difficoltà e, insieme, l'impulso a creare le condizioni per "vendere cara la pelle" in caso di sconfitta.
Ma il motivo vero per cui penso che gli italiani che devono ancora decidere che fare il 9 aprile non siano stati colpiti favorevolmente dal "vaffa" indirizzato dal premier ai vertici di Confindustria è il senso di disorientamento che in essi cresce ogni giorno di fronte ad un confronto politico che è diventato una sorta di "tutti contro tutti" - tra e dentro le coalizioni - per di più combattuta con armi nucleari.
Una gara alla delegittimazione reciproca che a Vicenza è stata portata agli estremi, coinvolgendo una forza sociale per definizione trasversale come Confindustria. E qui scattano le considerazioni di carattere più generale sulla mossa berlusconiana. Il Paese è già abbastanza logorato da questa contrapposizione tra "bene e male" cui con uguale responsabilità tanto il centro-destra quanto il centro-sinistra hanno trasformato il confronto politico, per aver voglia di sopportare questa ennesimo episodio di benzina sul fuoco. E, d'altra parte, se la Cdl è partita svantaggiata in questa corsa al voto non è per i meriti dell'Unione, che fatico a individuare, ma per la disillusione di chi sperava che il polo liberale (cosiddetto) uscito dalle elezioni del 2001 con oltre 100 deputati di vantaggio avesse il coraggio e la capacità di realizzare riforme che avviassero la modernizzazione dell'Italia e le dessero una chance di uscita dal declino strutturale in cui è caduta dall'inizio degli anni Novanta.
Invece in molti, troppi casi è mancato tanto il coraggio quanto le capacità. Si pensi al caso dell'articolo 18: un obiettivo giusto ma lacerante, che richiedeva una decisione rapida e ferma, oppure era meglio non farne niente.
Invece, il risultato è stata una guerra ideologica e nessuna decisione.
C'è poi un'ultima riflessione da fare. Questo è un paese che non si governa a strappi - specie se solo declamati - tanto più in una fase storica come questa che richiede una trasformazione profonda, e dunque prezzi da pagare non trascurabili. Chi si candida a palazzo Chigi deve sapere che non può essere vittima della diffusa attitudine al diritto di veto - penso alla Cgil durante la legislatura 1996-2001 - ma neppure interprete di uno stile un po' machista, che tende a dividere a spaccare tutto. Sbaglia Berlusconi a tentare di dividere la Confindustria cercando di delegittimare la sua presidenza. Prima di tutto perché non gli riuscirà. E poi perché ci ha già provato con il sindacato, e il risultato è che Cisl e Uil, dopo aver firmato il patto per l'Italia senza la Cgil, oggi sono schierate contro di lui totalmente.
Il Paese ha un bisogno disperato di concordia, di condivisione di regole, e nello stesso tempo di una sana capacità di decisione. In una sola parola, di governabilità. Temo che dopo il 9 aprile, comunque vada, sarà una merce rara. (www.enricocisnetto.it)


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NO, COSÌ RIDÀ SLANCIO AI SUOI AZZURRI
di OSCAR GIANNINO

NON è vero. Berlusconi a Vicenza non ha perso il controllo dei nervi. Non ha dato di matto. Anzi, c'è da scommetterci. Quel che leggerà stamane sui giornali italiani, sull'eccesso di aggressività e sulla mancanza di tatto riservate a Confindustria che l'ospitava a Vicenza, più che lasciare Berlusconi del tutto indifferente, lo convincerà ulteriormente di aver fatto un capolavoro. Le critiche confermeranno il giudizio polemico che ha espresso in maniera tanto tagliente, su tante testate d'informazione italiane. E, a giudizio del premier, faranno il suo gioco.
È impressionante come, a 12 anni dalla sua “discesa in campo”, ancora così tanti interlocutori non abbiano capito di che pasta sia fatta la concezione che Berlusconi ha della leadership. Nelle democrazie occidentali, dopo le tragedie dei conflitti mondiali, siamo ormai da decenni abituati a una concezione della leadership politica “posteroica”, fatta di razionalità weberiana, tatticismi diplomatici, sapienti sfumature di linguaggio. Nei momenti topici, nella storia delle sue aziende come nei momenti decisivi della sua parabola politica, Berlusconi è sempre stato alieno da tale accezione. Se per i più il governo della complessità richiede ai buoni politici di rinunciare consapevolmente a fare la parte degli eroi, Berlusconi non lo ha mai creduto. È lo stesso contrasto che nella prima vera guerra civile moderna ideologica, quella americana tra Grigi confederati e Azzurri unionisti, oppose leader e generali “eroici” del Sud abituati a combattere sul campo, ai freddi pianificatori del Nord, come Grant. Inutile dire a chi vada la predilezione del premier italiano: Enrico V che ad Agincourt è in testa agli assalti ai francesi, Napoleone che guida la carica alla baionetta sull'Adda, Gustavo Adolfo che muore spada alla mano a Lutzen nel 1632.
A fare la differenza tra leadership “eroica” e “posteroica” non è affatto nel primo caso la prevalenza delle pulsioni istintuali più violente: la storia politica e quella militare mostrano che sono proprio i leader “posteroici” i più determinati a realizzare tutte le condizioni non solo per battere l'avversario, ma per impedirgli per sempre poi di nuocere. Al contrario, la leadership “eroica” affonda le sue radici in una straordinaria autostima che il leader nutre di se stesso. In quel misto di orgoglio di doti ereditate e della loro giusta applicazione che già per David Hume costituiscono l'opinione che un uomo politico ha di se stesso.
La soluzione cui un leader “eroico” ricorre, quando avverte di trovarsi in difficoltà estrema, è la forza del proprio esempio sui subordinati. Quanto più una situazione è compromessa, le proprie truppe non riprendono a combattere obbedendo a ordini autoritativi, ma solo se indotte da un esempio trascinante. È esattamente quel che a Vicenza ha spinto Berlusconi ad alzarsi in piedi e ad appellarsi alla base di Confindustria, in diretta e frontale polemica col vertice dell'associazione. È come se avesse snudato la sciabola di fronte non agli industriali italiani, ma davanti a tutti i delusi e gli sfiancati di Forza Italia e della Casa delle Libertà, e si fosse gettato per primo a capofitto sul ponte di Arcole. Sapeva che l'effetto delle sue più recenti prove il confronto tv con Prodi, l'abbandono con Lucia Annunziata, il ko ai punti con Diliberto rischiava di infiacchire proprio nel momento supremo la combattività dei suoi. Ed è a loro che si è rivolto direttamente, cercandoli dalla terza fila in avanti della Fiera di Vicenza e non nel compassato vertice di Confindustria, ma nel vasto popolo sfiduciato delle migliaia di piccole e medie imprese, dei milioni delle partite Iva. Il centrosinistra farà bene a non illudersi. Può sdegnarsi quanto vuole, ma il numero è riuscito. Alla vasta platea di elettori che premiò Berlusconi nel 2001, e che non si è ritrovata poi nei traccheggiamenti della coalizione e nelle leggi ad personam al posto della separazione delle carriere tra pm e giudici, la carica di Berlusconi contro l'intreccio banco-industrial-editoriale accusato di detenere “il potere vero” suona come un efficace richiamo alla pugna. Anche se risulta potentemente attenuato da anni di governo discusso e da un'economia che non gira a dovere, quella del premier è stata una consapevole sfida estrema. Senza mezze misure. Che al Berlusconi imprenditore e finanziere potrebbe costare un domani ancor più salata, che al Berlusconi politico. Confindustria l'aveva già persa, dopo Antonio D'Amato. Tanto valeva spaccarla, a poche settimane dal voto, piuttosto che fingere rapporti diplomatici col suo vertice. Questo è Berlusconi.
Decideranno gli elettori, naturalmente. Ma attenzione. In tempi di leadership “posteroica”, piatta e un po' noiosa, la riproposizione sanguigna del modello contrapposto può riservare sorprendenti consensi. Molti magari diranno che guidando arditamente le cariche alla testa degli squadroni, Murat esponeva Napoleone a perdere battaglie e guerre. Altri, magari, paragoneranno Vicenza all'ultimo discorso di Mussolini, al Lirico di Milano. Ma che per tanti italiani e non solo tantissimi imprenditori non risulti ancora credibile, il mix di più imposte e più rigidità che continua a caratterizzare il centrosinistra è un dato di fatto. Dovrebbe sconsigliare rischiose alzate di spalle. Come quelle di chi pensa che ormai Berlusconi è pazzo, e si deve solo curare.

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