GUSTAVO ZAGREBELSKY: IL GIUDICE LA LEGGE E I DIRITTI DI WELBY

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INES TABUSSO
00lunedì 19 marzo 2007 20:52

LA REPUBBLICA
19 marzo 2007
Il giudice la legge e i diritti di Welby
di Gustavo Zagrebelsky

La vicenda di Piergiorgio Welby è conclusa sul piano umano. Non lo è su quello giuridico. La pronuncia del Tribunale di Roma è ancora sub indice e, soprattutto, potrebbe diventare il modello di altre future pronunce in casi analoghi. Essa contiene un principio di diritto, al tempo stesso, molto importante e -per essere chiaro - del tutto inaccettabile, che avvilisce la nostra giustizia.

La struttura concettuale della decisione è tripartita. (1) Innanzitutto, dopo aver richiamato norme della più diversa natura: internazionale, costituzionale, legislativa e deontologica, si afferma che il principio di autodeterminazione è da considerare ormai positivamente [cioè dal diritto vigente] acquisito e che esso comprende la facoltà di scegliere tra le diverse possibi­lità di trattamento medico, di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevol­mente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale. Ugualmente vigente - si aggiunge - è il divieto dell'accanimento terapeutico. (2) Tuttavia il diritto di autodeterminazione e il divieto di accanimento, pur "positivamente acquisiti", sono disciplinati in modo insufficiente e contraddittorio. Insufficiente, perché la legge non prevede alcuna disciplina specifica del rapporto medico-paziente nelle fasi terminali della vita, non distinguendo tra comportamenti commissivi (interrompere un trattamento attuale) e omissivi (non praticare un trattamento possibile), non definendo il contenuto di concetti rilevanti, come la dignità umana e le condizioni che degradano l'essere umano da soggetto a oggetto, la futilità, l'inutilità o la sproporzione dei trattamenti, l'insostenibilità della sofferenza, ecc.

Contraddittorio, perché l'ordinamento giuridico, che pur prevede il diritto di autodeterminazione e il divieto d'accanimento terapeutico, è ispirato, nel suo complesso, al principio di indisponibilità della vita, come risulta da norme del codice civile, del codice penale e della deontologia medica. (3) Data la carenza e la contraddizione delle norme, il diritto di richiedere l'interruzione del trattamento, che pur è riconosciuto dall'ordinamento, è un diritto non concretamente tutelato. Esso lo sarà solo quando il legislatore sarà intervenuto a porre una disciplina positiva, sufficientemente precisa e coerente; in mancanza, il giudice deve astenersi dal giudicare. Il ricorso di Piergiorgio Welby, così, non è stato né accolto né respinto: è stato dichiarato "inammissibile".

L'impressione che si ricava è di una stridente, irridente contraddizione. Come? Prima, mi dici che ho un diritto, in astratto, ma che, in concreto, non l'ho più! Se non l'ho in concreto, che cosa significa riconoscermelo in astratto? Mi stai forse prendendo in giro? È il momento di simili giochi di prestigio? Questo modo di argomentare - con tutto il rispetto dovuto a una decisione non certo facile - non accresce il rispetto dei cittadini nei confronti della giustizia. Rappresenta ciò che i giuristi chiamano "denegata giustizia": il diritto c'è, ma io, giudice al quale ti sei rivolto, mi rifiuto di darti il provvedimento che lo protegge. Si può discutere se sia fondata, in tutta la sua ampiezza, l'affermazione indicata al numero (1), quanto al principio di autodeterminazione; ma non si può dire, una volta riconosciutolo: il diritto costituzionale è "effettivo e tutelato " solo se e quando il legislatore abbia emanato norme di attuazione. Ciò, in concreto, significa subordinare la Costituzione alla legge, proprio come si cercava di fare con la vecchia e superata dottrina delle norme costituzionali solo "programmatiche"; una dottrina con la quale, nei primi anni dopo l'entrata in vigore della Costituzione, si era tentato di "congelare" gran parte delle sue disposizioni principali, subordinandole al beneplacito del legislatore. Oggi, vale il principio opposto, sancito dall'art. 24 della Costituzione e ribadito numerose volte dalla Corte costituzionale: se un diritto c'è (e tanto più se è previsto dalla Costituzione) non può mancare un giudice davanti al quale farlo valere.

Si può capire la difficoltà dei nostri giudici, abituati a giudicare applicando regole precise (quelle che il Tribunale di Roma chiede al legislatore) e non avvezzi a giudicare secondo principi di portata generale (come quello di autodeterminazione). Ma è proprio questo il compito cui essi sono chiamati nel nostro momento storico, quando il diritto — in primo luogo, il diritto più elevato: il diritto costituzionale — si esprime attraverso norme di principio e, in questa forma, sono proclamati i diritti fondamentali. Giudicare secondo principi non è la stessa cosa che giudicare secondo regole. Secondo regole, il giudice può trincerarsi dietro una funzione meccanica, di semplice "bocca della legge", la celebre formula di Montesquieu; giudicare secondo principi è cosa molto diversa. Significa stabilire un contatto immediato e concreto con i casi da giudicare. Il criterio di decisione scaturisce così nel rapporto principio-caso e non è mediato dalla regola legislativa. Il compito del giudice si arricchisce di responsabilità e diventa terribilmente difficile. Ma non è una buona ragione per non giudicare.

Possiamo auspicare che il legislatore ponga regole per precisare i principi, e così alleggerire il compito dei giudici. Ma si deve riconoscere che, in settori come il nostro, i principi sono insostituibili. Come si può pensare che la legge "faccia chiarezza e definisca" (questo il Tribunale chiede) concetti come futilità e sproporzione dei trattamenti, dolore insostenibile, "qualità della vita'' intollerabile, degradazione della persona da soggetto a oggetto? È un compito impossibile, in generale e in astratto, cioè per legge. È perfino grottesco pretenderlo. È invece possibile, oltre che necessario, in concreto, a contatto con l'irriducibile varietà delle situazioni. Ed è qui che il giudice incontra la sfida alle sue responsabilità.

Per chiarire che cosa significa giudicare per principi e non sottrarsi alle responsabilità,ecco come ha deciso la Corte d'Appello del Regno Unito inun caso che coinvolgeva analoghi problemi. È una pronuncia del 9 dicembre 1992, riguardante un certo Anthony Bland che, per lo schiacciamento dei polmoni, aveva subito una sofferenza cerebrale con danni irreversibili e da tre anni e mezzo era totalmente privo di reazioni nervose (Martin Roth, Euthanasia and related ethical issues in dementias of later life with special reference to Alzheimer's disease, in «British Medical Bulletin», vol. 52, n. 2, aprile 1996, p. 268 ss.). La Corte d'Appello stabilì che l'équipemedica avrebbe agito conformemente al diritto sospendendo i trattamenti artificiali che tenevano in vita il paziente, in presenza di un giudizio medico unanime circa l'irreversibilità delle sue condizioni: «Le scelte giuridiche devono rassicurare la gente sul pieno rispetto della vita che grava sulle Corti come obbligo, ma non fino al punto in cui diventi privo di reale contenuto e quando ciò coinvolge il sacrificio di altri importanti valori come la dignità umana e la libertà di scelta. Tali assicurazioni possono essere fornite da una decisione, adeguatamente motivata, che permetta a Anthony Bland di morire. Ciò non significa ch'egli può morire perché la Corte pensa che la sua vita "non è degna di essere vissuta". Non è questa la questione. La dura realtà è che egli non sta affatto vivendo una vita. Nessuna delle cose che si possono dire su come noi viviamo la nostra vita - sani o ammalati, con coraggio o forza d'animo, serenamente o tristemente - hanno alcun significato per lui. Ciò rappresenta una differenza qualitativa rispetto al caso di persona gravemente handicappata ma vigile. E’ assurdo evocare lo spettro dell'eugenetica come motivo contrario alla decisione in questo caso». La Corte affronta poi la questione delle modalità della morte e la distinzione tra far e lasciar morire, distinzione cruciale anche nel caso Welby:non sarebbe più umano praticare un'iniezione letale, piuttosto che attendere la morte per un'infezione o per mancanza di nutrimento? «Secondo le nostre istintive intuizioni, molti di noi sono sgomenti di eventualità che gli sia fatta un iniezione letale. Questo è connesso con la convinzione che la santità della vita ne implica l’inviolabilità da parte di estranei. Salve eccezioni come la legittima difesa, la vita umana è inviolabile perfino se la persona in questione consente alla suua violazione. Ciò spiega perchè, sebbene il suicidio non sia un crimine, lo è l’assistenza a chi vuol suicidarsi. […] Il principio di inviolabilità spiega perchè, sebbene noi accettiamo che in certi casi sia giusto permettere a un uomo di morire, crediamo senza riserve che nessuno può introdurre nella vita altrui un azione esterna con l’intenzione di causare la morte. Qusta distinzione non si fonda sul fatto che si tratti di un’azione o di un omissione. La distinzione è tra un’azione o un omissione che permette a una causa di produrre i suoi effetti e l’introduzione di un agente esterno che causa la morte. Uccidere o lasciar morire è la distinzione accettabile».

Questa citazione non è perché questi argomenti siano indiscutibili, ma è solo per mostrare come si argomenta per principi, ciò che, nel caso Welby, non è stato fatto. Si dirà: ma il nostro non è un ordinamento di common law. Da noi, i diritti sono diritti legislativi (ciò che, implicitamente, ha detto il Tribunale di Roma), mentre il common law riconosce diritti prelegislativi, beni giuridici nati dal diritto naturale o nella tradizione giuridica. Questo è vero. Ma, da quando sono vigenti costituzioni che statuiscono diritti indipendenti dalla legge - ciò che chiamiamo "Stato costituzionale" -, la condizione pratica in cui si trovano i giudici non è diversa: là e qua essi hanno a che fare con i diritti che, qualunque ne sia l'origine (il diritto naturale, la tradizione, laCostituzione), esistono da prima che il legislatore li determini per mezzo di regole. Sotto questo aspetto, c'è un'inevitabile convergenza tra ordinamenti pur un tempo assai lontani, quanto a ruolo della legge e a compito dei giudici.

La motivazione della decisione sul caso Welby, infine, mette in luce un'altra difficoltà in cui essa si è impigliata: la contraddizione tra il diritto di autodeterminazione e il generale orientamento della legge all'indisponibilità della vita. Il giudice l'ha risolta astenendosi dal giudicare e invitando il legislatore a intervenire per contemperare i due principi. Ma, se la constatazione è fondata e il giudice non sa risolverla da sé; se cioè un diritto costituzionale si trova in irrimediabile contraddizione con altre parti dell'ordinamento giuridico, la via non è astenersi dal giudicare, ma proporre la questione alla Corte costituzionale, il "giudice naturale" cui spetta assicurare la coerenza del diritto, sotto la supremazia della Costituzione.

Da qualunque parte questa vicenda si guardi - compiti dei giudici e valore della Costituzione - si ha da essere delusi, e la delusione aumenta quando si consideri la diversa situazione che esiste in altri Paesi, dove il ricorso ai giudici per la tutela dei diritti ha un grado di efficacia ben maggiore di quello che il nostro ordinamento giudiziario ha saputo finora offrire nel caso di Piergiorgio Welby.




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