BARBARA SPINELLI: IL CAPITALISMO DEI FALSI RIFORMISTI E L'ELOGIO DEI PREGIUDIZI

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INES TABUSSO
00domenica 18 dicembre 2005 19:14
LA STAMPA
18 dicembre 2005
L’ANALFABETISMO MORALE DELLE CLASSI DIRIGENTI
Elogio dei pregiudizi
Barbara Spinelli


PER un cittadino che volesse avere lo sguardo di Candide, e come nel racconto di Voltaire vedere le cose come stanno veramente e non come dovrebbero stare, quello che abbiamo davanti ha un sapore ben conosciuto. Vien chiamato Bancopoli invece di Tangentopoli, ma il disastro è lo stesso e i danni che procura sono in ambedue i casi ingenti. È il disastro della politica che s’intreccia con gli affari, per di più loschi. È il disastro di esponenti della classe dirigente che hanno ignorato norme basilari della buona condotta, e ignorandole hanno perso il senso della realtà, e perdendo il senso della realtà hanno smarrito l’etica.


Giacché questa è la miscela che genera ricorrenti scandali in Italia: l'analfabetismo morale, l'indifferenza a quel che il mondo reale dei cittadini pensa dei propri dirigenti, l'esistenza di piccole cricche esoteriche dove il senso etico degenera perché gli iniziati si abituano a darsi ragione gli uni con gli altri, a non criticarsi mai, a giudicarsi non solo infallibili ma invisibili e insomma non punibili. Parliamo di classi dirigenti inadempienti perché tra esse non ci sono solo governo e Banca d'Italia: ci sono partiti, banche, governanti, e opposizione. Candide vedeva un terremoto perché ne sentiva gli effetti (gli cadevano addosso case), laddove il dotto professor Pangloss non scorgeva che trascurabili incidenti in una storia che andava provvidenzialmente verso il meglio.


Così ragionano oggi molti dirigenti, negando ogni somiglianza con Tangentopoli. Bersani, dei Ds, dice addirittura che «la storia non torna mai indietro»: non si sa da dove prenda questa sicurezza granitica, panglossiana, un po’ comunista, e molto astuta. Lo stesso Bersani dice di sognare «un’Italia dove non ci siano pregiudizi». Il pregiudizio è vocabolo che vale la pena esaminare ogni volta da capo, se si vuol agir bene e non cadere nell’arrogante ignoranza della buona condotta. Il Devoto spiega che è un'opinione preconcetta, capace di fare assumere atteggiamenti ingiusti nel giudizio e nei rapporti sociali. Ma in alcune circostanze il pregiudizio è moralmente benvenuto: non è male esser pregiudizialmente contrari alle ruberie, all’impunità, alla mescolanza tra interessi propri e altrui, al potere gestito senza controllo fino al momento in cui la legge «ci becca». Il Decalogo è colmo di pregiudizi, e quella che Kant chiama «legge morale interiore» (o legge morale a priori) non è meno pre-giudiziale.


Questo restare impantanati nella corruttela dei costumi ha molte radici, e tra esse c’è anche il fastidio che tanti, a intervalli regolari, provano verso alcune forme etiche di pre-giudizio. È uno strano fastidio, che tende a privilegiare quel che è utile per sé su quel che, essendo utile per tutti, diventa universalmente stimabile e onesto. È un non voler essere disturbati, scomodati, in chi è soverchiato dall'ansia di salire ai piani alti e vuol affermare non la forza individuale d’un carattere, ma uno statuto di provenienza: nei piani alti, immaginano costoro, si comanda veramente, c’è vera ricchezza, e «non usa farsi scrupoli». Non solo in Italia sono figure ricorrenti, e spesso il loro giudizio negativo sui piani nobili non è inappropriato: di recente ci fu Craxi, poi Berlusconi, e poi quella parte dei Ds che s'è proposta di prendere il posto di Craxi e forse è stata contaminata da Berlusconi. Non senza argomenti alcuni denunciano una sorta d’inciucio ambulante, di bicamerale delle finanze, che sulle ansie d'inferiorità s'è andato edificando.


In genere queste ansie si nutrono di tre passioni: il ressentiment di chi fin qui non ha avuto e vuol di corsa rifarsi, un certo gusto sacrilego della spregiudicatezza (gusto cinico cui vien dato il nome eufemistico di modernità), e la polemica contro i poteri forti, detti non fortuitamente piani nobili. Tra le cose che più impressionano, oggi, è la somiglianza del linguaggio impiegato in materia da Berlusconi, D’Alema, e uomini di Fazio. Tutti inveiscono contro i poteri forti, i salotti buoni. È quello che ha spinto D'Alema a parlare di razzismo contro la scalata Unipol e contro i Ds che si son fatti paladini della scalata senza ascoltare i consigli di chi al mondo delle cooperative è in fondo più vicino (la Cgil).


Il progettone che avevano in mente i furbetti del quartierino - nelle simultanee e concordate scalate di Antonveneta, Corriere, Bnl - era proprio di superare questi pregiudizi ritenuti antiquati. Nella Roma antica si parlava di homines novi, e ce n’erano di ottimi come Cicerone. Nelle democratiche e mobili società odierne quasi tutti sono homines novi, e molti sono ottimi anche qui. Ma quando non sono ottimi, è la molla mimetica che in essi prevale: vogliono divenire spregiudicati tra gli spregiudicati. È la ragione per cui Arturo Parisi sollevò con preveggenza la questione morale, in estate, quando disse che «il vero virus è ed è stato il conflitto di interessi alla Berlusconi.


Dobbiamo assolutamente evitare di esserne in qualche modo contagiati tutti. (...) Guai se la gente pensasse che ci stiamo acconciando all’”una volta per uno non fa male a nessuno”» (Corriere della Sera, 4-8-05). Questo rischio di contagio esiste, così come esiste il rischio che l'Italia continui a difettare di anticorpi, capaci di espellere i virus prima che magistratura e stampa si mettano a riportar ordine usurpando le funzioni di politici e Banca d'Italia, di imprenditori e banche (lo spiega bene Alessandro Profumo dell’Unicredit, in un’intervista a La Stampa del 16-12) [1] . Sono pericoli che l’opposizione difficilmente può trascurare, se non vuole che i cittadini disertino le urne ritenendo tutti i politici disonesti.


E dentro l'Unione una responsabilità speciale spetta ai Ds, che più si sono sbilanciati nella difesa di uno degli scalatori indagati (Consorte dell’Unipol): spetta non a questo o quel diessino, ma a chi li rappresenta tutti e cioè al segretario generale Fassino. Sylos Labini aveva visto giusto: «Quelle scalate, pur se lecite, sono semplicemente deleterie per l’immagine dei Ds»; chi le avversa «convinca i suoi colleghi politici che è per il bene loro, anche se non immediato, e per il bene di tutti, prendere distanze ampie e convincenti; altrimenti politicamente si squalificano, aumenterà la sfiducia degli elettori verso tutti i politici, e crescerà a vista d'occhio il partito, già maggioritario, dei non votanti». Ma non ci sono solo i Ds: il danno che incombe è ancor più grande, ed è linguistico oltre che politico.


L’indifferenza e l’ignoranza delle regole di buona condotta hanno contaminato un intero vocabolario, che era nobile e utile per la sinistra e l'Italia. Hanno d’un tratto sporcato parole che restano preziose se adoperate appropriatamente, come riformismo o moderatismo o spirito bipartisan. Ogni volta che i riformisti volevano esser spregiudicati, hanno finito infatti con l'accettare le corruzioni senza fiatare. Ogni volta che lo spirito bipartisan avveniva all’infuori della morale, si tramutava in inciucio anziché in opinione condivisa. È avvenuto in tal modo che uno schieramento eteroclito abbia a lungo difeso Fazio con slogan analoghi sui poteri forti: uno schieramento che va dal senatore Grillo al Riformista, da Berlusconi alla Lega e al sito dalemiano Left Wing [2], su cui Fabio Martini ha scritto martedì su La Stampa (leggiamo su Left Wing.it: «Fazio ricorda gli ultimi mesi di Yasser Arafat. Prigioniero nel suo ufficio, circondato dall'esercito nemico e minacciato di espulsione a intervalli regolari. Antonio Fazio oggi è circondato da una sorta di cordone sanitario dell'insolenza») [3].


Un altro elemento che accomuna Tangentopoli e Bancopoli è la diffidenza verso magistrati e stampa che fanno luce sul legame tra politica, Banca d’Italia, malaffare, scalate. Anche qui, il fastidio di chi non tollera d'esser scomodato ingenera singolari complicità e affligge certe ali riformiste (non la Margherita, non Prodi o Amato) indebolendole nei rapporti con le ali più radicali. Se Berlusconi parla di massacro mediatico, Fassino parla di «devastante polverone che una parte della stampa ha voluto sollevare»: dove quel che devasta non sembrano essere le disonestà, ma il dito puntato su disonestà e falsi riformisti di sinistra. In realtà questa parte dei ds è assai poco riformista, e forse l’aggettivo andrebbe da oggi usato in maniera più selettiva. Questa parte dei ds (da cui il vertice non prende le distanze per malintesa fierezza di partito o per debolezza nei rapporti di potere interno, confondendo responsabilità personali e partitiche) si comporta nel modo seguente dopo la fine del sovietismo: è come se volesse far propria, ma traducendola in positivo, l'immagine che Marx si faceva dell’economia di mercato - un’economia che solo nell’800 vien ribattezzata capitalismo. Per Marx il capitalismo era vorace, distruttivo anziché creativo, cinico, senza regole, deciso a trasformare i poteri statali in comitati che si limitano ad «amministrare gli affari comuni dell'intera classe borghese» (Il Manifesto).


È il capitalismo che molti falsi riformisti oggi difendono. Per costoro sono poco importanti la reputazione e la stima che il mondo esterno ha delle nostre condotte. Sognano appunto un mondo senza pregiudizi, scambiandolo per moderno. Sono smagati e filosoficamente accorti, avendo alla spalle un’immane strage delle illusioni (la propria). È quello che Giacomo Leopardi temeva di più, nel suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani. Sono talmente smagati e disillusi, gli italiani, sono talmente intelligenti, che dal massacro delle illusioni e dell’immaginazione hanno appreso la peggiore condotta: il cinismo, l'indifferenza etica, l'egoismo, il disprezzo dell'opinione altrui e di quel che forma la reputazione. Per Leopardi, è il motivo per cui la vita in Italia («dunque l'azione») è senza prospettive: senza prospettiva di una miglior sorte futura, senza occupazione, senza scopo, e ristretta al solo presente.



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[1]
LA STAMPA
16 dicembre 2005
Profumo
Sulla Pop Lodi bisognava prevenire «L’indipendenza non è irresponsabilità»

MILANO - «Quando si arriva al punto in cui deve intervenire la magistratura per realizzare dei cambiamenti, è sempre un fatto negativo. Ma non mi fraintenda: non sto dicendo che l’intervento dei magistrati è in sé negativo. Ma gli anticorpi avrebbero dovuto attivarsi prima. Questa è un’influenza trascurata che si trasforma in broncopolmonite. Se chi doveva farlo fosse intervenuto prima, forse sarebbe bastata un’aspirina. Ora servono gli antibiotici».
Oggi a Genova, con l’assemblea dei soci che nominerà il nuovo consiglio, Alessandro Profumo taglia il traguardo della grande operazione Unicredit-Hvb. Un’operazione che consacra il gruppo nella pattuglia di testa delle banche europee e allontana ulteriormente il banchiere da quell’intreccio di faccende italo-italiane che - ripete spesso - non lo appassionano. Ma se Unicredit fa il balzo in Europa, l’immagine del paese e quella del sistema bancario - definizione che Profumo contesta vigorosamente - rischiano di scivolare ancora all’indietro sull’onda dell’arresto di Gianpiero Fiorani e della marea che da Lodi monta ancora una volta attorno al Governatore Fazio. Un problema di «governance», di regole che non sono state applicate.


Un segnale grave, dunque, l’intervento della magistratura?

«Grave è piuttosto che si sia arrivati a questo punto. Dovevano esserci meccanismi di controllo preventivi, che non debbono essere necessariamente esterni, possono essere anche meccanismi di governance interni. Uno pensa che quando non funzionano i meccanismi di controllo dipende dall’esterno, io sono dell’idea che anche l’autoresponsabilizzazione sia fondamentale. Qui in Unicredit, ad esempio voglio essere sicuro che se impazzisco, la struttura interna mi ferma».

Le norme che esistono sono sufficienti?

«In parte sì, certo possono essere rafforzate. Ma più in generale un problema italiano è che non abbiamo grande coscienza della governance. Si pensa che riguardi solo i consigli d’amministrazione, in realtà comprende tutti i processi di un’impresa comprese ad esempio - in banca – le procedure di concessione dei crediti».

Nell’assenza di terapie preventive c’è da annoverare anche una carenza politica, mostrata ad esempio dall’iter infinito della legge sul risparmio?

«Mi sembra che determinati problemi preesistano alla legge sul risparmio. E poi si parla di reati che esulano da quella legge, rientrano in altre fattispecie».

C’è anche stata una carenza delle autorità di controllo bancarie...


«Vedremo, ci sono indagini in corso che vanno rispettate».

Con un ruolo europeo di Unicredit sempre maggiore avvertite un problema di reputazione dell’Italia che aumenta?

«Ogni volta che ci affacciamo all’estero ci vengono fatte domande su questi temi. C’è attenzione, naturalmente questi episodi sono un problema per la nostra reputazione internazionale».

Nelle tre scalate di questa estate - Antonveneta, Bnl e Rcs - vede una regia unica?

«L’impressione che si ha è che ci siano dei personaggi ricorrenti, anche se non so dire se poi c’era una regia unica. Fiorani mi sembra che fosse coinvolto da tutte le parti».

Anche la vicenda Unipol-Bnl sta tornando in una zona grigia a cavallo tra politica e finanza...

«Al di là dei giudizi di contenuto, penso che in questa vicenda ci siano stati degli interventi politici inopportuni. Non parlo per Consorte ma per chi in apparenza l’ha appoggiato pubblicamente. Questo atteggiamento ha offerto la possibilità di dire: “Vedete? sono tutti uguali”. È difficile convincere gli elettori a votare il centrosinistra se si dà l’impressione che il conflitto d’interessi sia diffuso anche da quella parte».


Quindi lei avvalora una cinghia di trasmissione perfettamente funzionante tra i Ds e il mondo cooperativo?

«Obiettivamente, da parte dei vertici Ds ci sono state interviste per difendere l’operazione Unipol che a me sono sembrate poco felici».

Morale: le coop facciano le coop e non pensino alla finanza...


«No, non sto dicendo questo. Le coop fanno un ottimo lavoro e io non ho niente in contrario a che vendano o comprino società per azioni. Ma non capisco perché sulla vicenda debba intervenire chi fa un altro mestiere. La politica – e parlo di tutti i partiti - ha un ruolo importante di indirizzo generale, non dovrebbe intervenire sulle singole vicende».

Sempre questa estate lei ha detto che avrebbe voluto sapere qualcosa del programma del centrosinistra per il paese in caso di vittoria alle elezioni. Sei mesi dopo lo ha capito?

«Mi sembra che qualcosa stia uscendo e che i Ds e la Margherita ci stiano lavorando in modo serio. Certo, continuo a ritenere necessario che in economia ci sia un programma forte di realizzazione di politiche di mercato in ogni campo».


Cioé liberalizzazioni?

«Non solo liberalizzazioni, ma anche in alcuni casi ri-regolamentazioni, compreso un rafforzamento delle autorità di controllo. Sono tutte cose che devono viaggiare assieme. Adesso mi sembra che ci siano authority che funzionano peggio e altre che funzionano meglio, anche come grado di autonomia dalla politica, in relazione alla modalità di nomina dei loro componenti».

Le si può facilmente obiettare che Bankitalia, del tutto indipendente dalla politica, non ha dato certo grande prova nelle ultime vicende bancarie.

«Essere indipendenti dalla politica non vuol dire non avere accountability, cioé essere privi di responsabilità, o non avere governance. Il problema, anche qui, sono le modalità di governance».

Parliamo di Unicredit. Con il voto di oggi nasce la quarta banca europea. Ma in Polonia continuate ad avere qualche problema per la fusione tra Bank Pekao e Bph. Come lo risolverete?

«Abbiamo già ottenuto il via libera antitrust ma le autorità polacche sono ovviamente prudenti su un’operazione che mettendo assieme due delle prime quattro banche del paese creerà la prima banca polacca. Troveremo una soluzione, così come studieremo modalità di collocamento organizzativo della banca polacca nel nostro gruppo che superi le diverse obiezioni».

I vantaggi per gli azionisti di Unicredit finora sembrano provati. Ma per i vostri clienti che vantaggi ci sarà da un grande Unicredit?

«Abbiamo circa 120 mila clienti corporate, cioé aziende, che hanno una presenza in almeno due dei diciannove paesi che diventano nostri mercati domestici. E per quel che riguarda i clienti retail posso dire che avremo anche delle economie di scala che ci consentiranno di essere più competitivi. In ogni caso la nostra dimensione internazionale non ci farà dimenticare il forte legame che continuiamo ad avere con i nostri territori italiani di riferimento».

Unicredit sta lavorando anche a Torino, con uno dei suoi comitati territoriali, per un progetto che coinvolgerà Mirafiori...


«Sì. A Torino, con Andrea Pininfarina che è presidente del comitato locale ci siamo trovati a ragionare sul possibile utilizzo futuro di Mirafiori che può essere un luogo emblematico della rinascita di una città peraltro molto ben amministrata. È nata quindi l’ipotesi di capire gli usi possibili di Mirafiori, assolutamente non in un’ottica di speculazione immobiliare - questo ci tengo a sottolinearlo - per capire quali elementi di attrazione si possano usare per creare una ricaduta positiva sulla città».

In che modo?

«Noi diamo i fondi per un concorso di idee. Vogliamo aggregare intelligenze e progetti attorno a questo spazio, assieme ad altri protagonisti come gli enti locali e la Fiat che farà la sua parte».

Torniamo ai fatti di questi giorni, dottor Profumo. Che cosa serve per sanare un sistema bancario italiano in cui stanno emergendo patologie gravi?


«Guardi generalizzare è pericoloso, il sistema bancario italiano è assolutamente sano. Dal punto di vista internazionale il problema è quantomeno recuperare un’immagine che oggi è peggiore di quello che realmente siamo. E poi l’apertura del mercato italiano a operatori internazionali mi sembra un elemento importante. Dimostrerebbe che le banche italiane sono perfettamente in grado di reggere alla concorrenza e darebbe ai clienti maggiore libertà di scelta rivolgendosi, se lo preferiscono, a banche gestite da operatori stranieri. Detto questo non mi piace sentire parlare di sistema bancario. Perché le banche vengono viste sempre come un sistema?»

Forse perché danno l’impressione di avere comportamenti piuttosto collusivi?

«Non capisco perché chi cerca di lavorare bene, nel rispetto delle regole, deve essere messo sotto accusa come chi quelle regole ha violato. Quando c’è stato il caso Parmalat, con un imprenditore che, a quanto pare, si è reso responsabile di malversazioni, a nessuno è venuto in mente di puntare il dito sul sistema industriale nel suo complesso. Allo stesso modo penso che ciascuna banca abbia il diritto di essere considerata per quello che singolarmente fa e non accomunata a tutte le altre».


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[2]
www.leftwing.it/index.php


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[3]
LA STAMPA
13 dicembre 2005
BANCHE E SCANDALI PRUDENZA NEI QUARTIERI DI FASSINO, MENTRE I DALEMIANI DENUNCIANO UN COMPLOTTO
La Quercia teme il furbetto di sinistra

ROMA - A voce alta nessun dirigente della Quercia avrebbe il fegato di pronunciare parole di così calda simpatia per il Governatore della Banca d’Italia. O di così aperta critica alla magistratura. Ma ieri mattina la sorpresa lampeggiava da Left Wing, sito Internet per intenditori e catalizzatore di umori dalemiani, che arrivava ad immaginare un parallelo tra il destino di Antonio Fazio e quello di Yasser Arafat: «Prigioniero nel suo ufficio, circondato dall’esercito nemico e minacciato di espulsione a intervalli regolari, il Governatore oggi è circondato da una sorta di cordone sanitario dell’insolenza». E più avanti così si leggeva: «A fine luglio la Procura di Milano non ha esitato a sequestrare in via cautelare - cioé senza neanche lo straccio di un regolare processo - la maggioranza delle azioni della banca Antonveneta, nominando un custode giudiziario il quale ha lasciato che la minoranza olandese nominasse i vertici dell’Istituto e ne assumesse il controllo fuori da ogni normale regola di mercato». Certo Left Wing - scritto dai trentenni culturalmente più attrezzati dell’area dalemiana (Francesco Cundari, Andrea Romano e Fabio Nicolucci)- non è ispirato da Massimo D’Alema, semmai liberamente vi si ispira ma di sicuro trasmette gli umori che si respirano in quell’area della Quercia. Umori, in queste ore, gonfi d’ansia. Nei ds da qualche giorno anche i più rassicuranti difensori della questione di principio - le assicurazioni possono entrare in una grossa banca - per la prima volta sono attraversati dal dubbio di trovarsi davanti al caso di un «furbetto di sinistra». Dubbi esaltati dalle voci, messe in giro da chissà chi, di possibili arresti nelle prossime ore. E davanti all’incognita giudiziaria dagli esiti imprevedibili la Quercia si scuote, sino a dividersi: mentre gli uomini vicini a Fassino usano un linguaggio prudente, l’ala vicina a D’Alema - più vicina all’universo Unipol - parte all’attacco contro una non meglio dettagliata «campagna» contro la compagnia di assicurazioni vicina alla sinistra. Dice Gavino Angius, presidente dei senatori Ds: «E’ fin troppo evidente che è in corso una campagna politica e mediatica contro Unipol, condotta da qualche giornale tutt’altro che disinteressato alle vicende dell’Opa su Bnl». Accuse non meglio dettagliate, ma il cui senso è spiegato dall’Unità che ieri, per chiosare un’analoga sortita di Massimo D’Alema, scriveva: «Il riferimento quasi esplicito del suo sfogo è il Corriere della Sera». E dunque per Angius, si cerca di bloccare Unipol perché le cooperative «devono essere come gli animali ammaestrati, quasi domestici: possono stare in casa, ma al loro posto e non devono disturbare» gli assetti di potere difesi «da qualche traballante salotto della finanza italiana». Impegnato in una polemica frontale Angius non concede spazio a dubbi o riflessioni problematiche, mentre Vannino Chiti, braccio destro di Fassino, è decisamente più prudente: «Per nessuno abbiamo chiesto di non rispettare le leggi: l’Unipol vive di vita propria, sono i dirigenti e i soci che fanno le loro scelte» e dunque «rispettando le leggi, possono anche acquisire una banca, se ne hanno le forze e le risorse». Non c’è una presa di distanza dal leader di Unipol Giovanni Consorte, ma Chiti indica una serie di condizioni (se si rispettano le leggi, se si hanno le risorse) che solo apparentemente sono ovvie. E per la prima volta da questa estate, il gruppo raccolto attorno a Fassino sembra discostarsi dalla doppia opzione della Quercia: poiché per l’Unipol è lecito comprarsi una grande banca, di fatto anche tutto l’operato di Consorte è lecito. In estate un eccesso di difesa da parte di Fassino che ora potrebbe essergli rinfacciato? «Non direi proprio - dice l’ex ministro Franco Bassanini, uno dei pochi critici della prima ora della “tendenza Consorte” - Fassino era giustamente preoccupato da un attacco pretestuoso al mondo della cooperazione e che questo attacco potesse essere strumentalizzato politicamente. Insieme a questo è giusto preoccuparsi che politica e affari restino mondi separati». Certo, anche in estate fassiniani e dalemiani si erano divisi (Vannino Chiti era arrivato a chiedere le dimissioni di Antonio Fazio, Pierluigi Bersani lo aveva sostanzialmente difeso), la divisione torna in queste ore anche se la preoccupazione inespressa dall’intero gruppo dirigente è un altro: che in caso di crisi si apra il «fuoco amico». E un primo assaggio lo offre Renzo Lusetti, vicepresidente dei deputati della Margherita: «Siamo davanti ad una vicenda spinosa. Il rischio maggiore è che possa esserci una deviazione dagli obiettivi della cooperazione».


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